“La mia Olimpia in 100 storie + 1” è una miniera. Di ritratti, flash-back, ricostruzioni meticolose. E aneddoti, gag, retroscena. Un racconto che si dipana con le parole messe nero su bianco da Umberto Zapelloni e il racconto, vivace, di Dan Peterson. Sembra di sentirlo, coach Peterson, pagina dopo pagina, rievocare la sua squadra, la compagine vincente guidata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. “La mia Olimpia” è un libro che si può leggere dall’inizio alla fine o saltando da un capitolo all’altro, scegliendo di volta in volta il ricordo del grande campione e quello del magazziniere, delle trasferte in Europa e dei derby, della Banda Bassotti e delle “armi vincenti” (la 1-3-1, lo schema "Elle"...). Anche degli errori, dei ripensamenti, dei “sarebbe stato meglio se”. Oltre 300 pagine che trasudano sport, passione, umanità. Ovviamente successi perché Daniel Lowell Peterson da Evanston, Illinois, ha portato a Milano quattro scudetti, due Coppa Italia, una Coppa Korać e una Coppa dei Campioni, con tanto di Grande Slam nel 1987.
In attesa di incontrarlo a Busto, a SportivaMente - Festival dei Libri Sportivi (appuntamento il 10 settembre in piazza San Giovanni, QUI e QUI info, elenco degli ospiti e programma della manifestazione) lo raggiungiamo al telefono per un assaggio della chiacchierata che verrà.
Coach, lei si rendeva conto, mentre sedeva su quella panchina, che stava facendo la storia di una società e del basket italiano?
(Risata) Mi fa piacere sentirlo ma non scherziamo. La storia dell’Olimpia, quella più importante, l’hanno fatta altri. Gente come Cesare Rubini che ha portato la prima Coppa dei Campioni in Italia. Nel libro ci sono anche loro, quelli che in un capitolo chiamo “I padri della patria”, figure come Sandro Gamba e proprio Rubini. È giusto ricordare chi ha fatto grande l’Olimpia prima che arrivassi io. No, non pensavo alla storia. Al massimo al campionato, all’annata. Ma anche dopo avere vinto uno scudetto si ricominciava da capo. Partita per partita, si andava avanti così.
In “La mia Olimpia” c’è una tale ricchezza di storie e ritratti che, a tentare una sintesi, gira la testa. Nonostante questo molto resta da scrivere. C’è uno dei protagonisti raccontati nel libro al quale dedicherebbe una monografia, un’opera a sé?
Come faccio a scegliere? Il primo nome che mi viene in mente è Dino Meneghin, un vero uomo squadra. Ma subito dopo penso a D’Antoni, il capo. Quindi a McDoo, un attaccante che faceva paura, e a Vittorio Gallinari, difensore straordinario, umile. A Roberto Premier, il più grande killer che ho allenato… E così via. Campioni di cui ho bellissimi ricordi. No, non posso scegliere. Però…
Però?
So che cosa avrebbe risposto a questa domanda Franco Casalini (vice di Peterson e suo successore sulla panchina Olimpia, scomparso nel 2022, a sua volta vincitore di un campionato e una Coppa dei Campioni, Ndr). Quando lasciò l’Olimpia e gli chiesero il suo ricordo più bello rispose “il rapporto con John Gianelli”. Fantastico giocatore, Gianelli. Casalini probabilmente avrebbe scritto un libro su di lui.
Al di fuori del basket, che cosa sceglierebbe di raccontare, ancora, delle sue mille esperienze? Lei è entrato nella testa e nelle orecchie “degli amici sportivi e non sportivi” in tanti modi: la pubblicità, le telecronache… Anche con il wrestling…
Be', il wrestling è una storia interessante… Ogni tanto, dopo che avevo smesso di allenare, dicevo che avrei dovuto commentare il wrestling. Bruno Bogarelli, fra le altre cose grande manager, ripeteva: assolutamente no, bisogna preservare la tua immagine. A un certo punto lui, figura importante in ambito televisivo, mi disse: ti do una notizia, l’anno prossimo commenti il wrestling. Come se fosse una sua idea! Non posso ripetere che cosa gli ho risposto (risata, Ndr). Ma mi sono messo a fare le telecronache divertendomi con gli spettatori. E apprezzando la professionalità dei lottatori, showman straordinari. Quando arrivarono a Malpensa per una serie di eventi in Italia andai a raccogliere qualche intervista. Erano appena sbarcati da un volo intercontinentale ma erano veri professionisti. Dissi a Greg The Hammer Valentine che passava più tempo a fare casino fuori dal ring che a lottare. Lui, forse 120 chili, si mise a sbraitare: io sono due volte campione del mondo, tu chi sei? Avevo acceso la luce della telecamera, gli era bastato un secondo per entrare nel personaggio…
Palla a Umberto Zapelloni. Tanto giornalismo sportivo alle spalle (Il Giornale, Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport), motori a profusione in curriculum, un amore mai sopito per il basket. È stato difficile scrivere “La mia Olimpia”?
Ma no, è stato divertentissimo. La memoria fenomenale del coach ha reso le cose più facili. E poi si torna a una Milano che io stesso ho vissuto, a un basket straordinario. C’erano le grandi città, come Roma e Torino, i derby con Varese e Cantù erano sentitissimi… Il numero degli stranieri era limitato e quelli che arrivavano erano super, ci si aspettava sempre molto da loro. I cambi delle formazioni da un anno all’altro erano meno esasperati di oggi. Quindi i tifosi si identificavano in un modo che poi si è perso. Rivivere quel periodo è stato bello.
A costo di ripetersi: a dispetto del tanto che avete raccontato, molto è rimasto fuori. Almeno per ora…
“La mia Olimpia” è una sintesi in cento storie. Perché ci siamo accorti che cento personaggi non sarebbero stati sufficienti. E poi… be’, poi ci sono passaggi nella vita del coach poco raccontati. L’esperienza da commissario tecnico della nazionale cilena, per esempio, all’inizio degli anni Settanta. Anni difficili per quel paese. È nata la leggenda che Dan Peterson fosse un agente della Cia in missione. Se non è da raccontare questa…