Sono dei veri capolavori i disegni dei bambini che quest’anno sono stati protagonisti della festa della Giöbia nei luoghi in cui la tradizione è stata fortunatamente mantenuta.
Lodevoli le istituzioni e le realtà del territorio che hanno voluto così mettere al centro le riflessioni personali, soprattutto le emozioni e la possibilità di condividerle. Creare la propria Giöbia e bruciare le proprie paure con lei, quale migliore modo di esorcizzare il temuto?
Trovo bellissimo che in questo modo "distanziato" i bambini abbiano comunque potuto vivere un momento di festa, un rito, una tradizione che da sempre ha la capacità di avvicinare, oggi quasi paradossalmente, generazioni e realtà diversissime, riproponendone il significato ancestrale.
Anche un solo sguardo ai tanti elaborati, seppur rapidissimo, non lascia spazio all’incertezza. In fondo, difficilmente si trova qualcosa di più evocativo di un disegno di un bambino. Quando poi il tema è ritrarre un’emozione, la paura in questo caso, l’occasione è importante. Esprimendo, raccontando e condividendo si evita che rimanga un fatto personale che, inevitabilmente, può raggiungere dimensioni difficili da governare. Dare voce alla paura è difficile, si rischia di sentirsi più vulnerabili, più attaccabili, soprattutto ci si vergogna spesso dei propri timori, e raccontarli sembra renderli realtà.
Il disegno, però, permette di realizzare l’emozione "intera". Non gradualmente o un po’ per volta, come quando la si racconta a voce. «Inizio e finisco quando lo dico io. Ti consegno il mio disegno, ti racconto la mia paura, se è questo che mi chiedi, nella forma, nei modi e nei colori che ho deciso. E la vedrai solo quando è completa». Il disegno lascia quindi meno spazio all’incertezza e permette di veicolare l’emotività in modo più completo, quindi più rassicurante.
Inevitabile che in questa occasione il grande protagonista fosse il virus che in un anno ha stravolto la vita di tutti, in forme e modi diversi, ma con precedenti che per tante generazioni di oggi sono ormai presenti solo sui libri di storia.
Già qualche anno fa, in tempi non sospetti, una simile richiesta era stata accolta a Busto Arsizio con entusiasmo da alcune scuole primarie. Allora l’indicazione, diretta, era "disegna e brucia le tue paure". A differenza di quest’anno, le paure raccontate dai disegni erano più varie, più personali (dalla zia anziana alla maestra di inglese, i "grandi della scuola", o l’amico del fratello che prende in giro, la mamma che si arrabbia o il precipitare dell’aereo su cui papà viaggia spesso), e più connotate nella grande varietà delle esperienze che normalmente sono dell’età scolare: i mostri, qualche personaggio spaventoso dei cartoni animati, i ladri, il buio, ma anche -e frequentemente - la malattia e la morte di persone care.
Già non mancava dunque la consapevolezza che è l’inevitabile a fare paura, ciò che non si può controllare e dominare. Quest’anno le paure dei bambini coincidono, è vero, con quelle dei grandi, ed è questo il dato che genera inevitabili considerazioni.
Ma c’è una differenza sostanziale, anzi due.
La prima, quasi inutile da sottolineare, è che il modo usato dai piccoli possiede quella semplicità di esprimere cose grandissime con disarmante chiarezza e immediatezza. La seconda, invece, apre le porte al futuro. Ritraendo la paura i bambini non si limitano a quella: a differenza dei grandi che, se interpellati, si attengono alla consegna, i bimbi guardano oltre, accostano altre emozioni e le raccontano, graficamente o a parole.
Molti disegni sono infatti accompagnati da frasi, auguri, speranze, dall’obiettivo, dal traguardo, dalla rabbia che questa paura ha scatenato e dalla tristezza che ha generato, dalla gioia e dalla sorpresa della certezza che una soluzione c’è.
Su uno di questi, accanto alla caratteristica forma del virus che abbiamo imparato riconoscere, una frase.
Io vorrei che il Covid sparisse, io ci credo.
Una volta bruciate le paure, realmente o in modo figurato, si può provare a girare pagina e guardare con più speranza al domani. Come i bambini, sempre, e non solo quest’anno, ci insegnano.
«Io ci credo».