Quale fu l’atteggiamento del fascismo di fronte all’affermarsi del jazz? Come poté essere tollerato un prodotto della cultura afroamericana in un Paese in cui, negli anni Trenta, si affermava una nuova vocazione colonialista e imperialista, si reclamava l’autarchia in tutti i campi e si intraprendevano inedite campagne razziste? A questi interrogativi risponde Enzo La Forgia mercoledì alle 15.30 nell’incontro Intitolato “Al fascismo non piace il “giazzo", in programma mercoledì alle 15.30 al museo del Tessile nell’ambito del calendario dell’Università popolare.
«L’intervento si propone di restituire sommariamente il contraddittorio clima culturale dell’Italia in camicia nera, che conosceva rivendicazioni “strapaesane”, nella difesa di un modello sociale rurale e tradizionale, e fascinazioni moderniste (gli stessi futuristi, ormai inquadrati nel nuovo regime, ebbero atteggiamenti ambigui nei confronti del jazz) - spiega il relatore - A partire dal 1937-1938, anche in campo musicale si tentò di intraprendere una “bonifica razziale”, ma nulla poté frenare la penetrazione delle nuove sonorità e dei nuovi ritmi accolti e fatti circolare in Italia da artisti come Cinico Angelini, Pippo Barzizza, Gorni Kramer, Natalino Otto, Alberto Rabagliati o il Trio Lescano».