Ieri... oggi, è già domani | 26 febbraio 2024, 02:00

"l'e se mezzu" - è abbastanza la metà

Nel Dialetto Bustocco c'è fantasia, ma non esiste l'esagerazione, proprio com'è la gente di qui.

"l'e se mezzu" - è abbastanza la metà

Quando si esagera è facile sentirsi dire "l'e se mezzu" (è abbastanza la metà). E ciò va bene in tutte le salse; sia per un discorso serio sia per un discorso …. osceno. Nel Dialetto Bustocco c'è fantasia, ma non esiste l'esagerazione, proprio com'è la gente di qui. Nei giochi, ad esempio. Mai esagerare. Tutti possono giocare e tutti hanno il diritto di giocare. Quando tuttavia qualcuno sfora il tangibile, ecco il "l'e se mezzu" che suona a monito per chi eccede. Non oltrepassare il limite dell'accettabile, altrimenti ci saranno delle conseguenze. Poi, in merito ai giochi, si aggiunge un altro monito: "se'l giugu làa essi bòn … làa essi cortu" (se il gioco dev'essere buono, dev'essere corto) per non eccedere. Altro detto: "ul rol ridi al vò in piangi" (il troppo ridere, volge in pianto) e ciò avviene quando i freni inibitori si allentano. Come a dire, "al vò a finì da fas mò" (va a finire nel farsi male).

Talune espressioni tipicamente Bustocche (dialettali) non erano recepite nelle famiglie dei ricchi. Segno tangibile che era la gente comune che si esprimeva in Dialetto. E proprio la gente comune, si capiva ed educava la figliolanza con esempi di vita vissuta, magari "alleggerita" di saggezza.

Giocare male significava incorrere in rischi banali o inutili che non valevano la pensa di essere affrontati. Si costituiva un deterrente all'esagerazione. Anche per il fatto che, se si dovesse superare il limite della decenza, scattava la certezza della pena. Farsi male in giochi stupidi era quasi una "colpa". I genitori (specialmente le mamme) non solo procedevano alle cure del caso coi dovuti rimedi, ma aggiungevano alla ramanzina, la certezza della pensa. Tolleranza zero!

Ed ecco Giusepèn con due vocaboli ancestrali che si usavano nelle povere case, fra la povera gente. Non certo nelle abitazioni di lor-signori che educavano i figli con parole "forbite", tradotte alla bell'e meglio dal Dialetto Bustocco all'italiano.

Ne ho sottomano due: "ul tirula" e "a pupola" - per quanto concerne il "tirula" si può ben dire che si riferisce al "succhiotto", alla "tettarella", al "ciuccio" che contempla la parte superiore del biberon, ma pure alla tettarella incastonata in un involucro di plastica-dura che divideva la tettarella al supporto da tenere in mano per portarlo alla bocca dell'infante. Col "tirula" si raddolcivano i bimbi e si forniva il latte ai puerperi, oltre alla poppata dal seno materno.

Si dava il "tirula" per far tacere i bimbi che urlavano per la fame o per qualche dolorino interno. Col "tirula" si creava una simbiosi tra il capezzolo materno e il bisogno di mordicchiare qualcosa per le gengive. Di notte, poi …. per far tacere il bimbo che sbraitava, si appioppava nella sua bocca il "tirula" e in meno che non si dica, arrivava la pace.

Per la "pupola" c'è qualcosa di romantico. In casa dei ricchi, si comprava la bambola che poteva essere di celluloide o di un materiale plastico duro. Bambole, tutte con lo stesso viso, stessa grandezza, stessi abiti che la moda di allora metteva sul mercato.

Vuoi mettere invece, la "pupola" confezionata in casa della gente comune (stavo scrivendo "della povera gente"). Aveva svariate dimensioni, vestiti differenti l'una con l'altra, fantasia nel disegnarle il viso, gli occhioni grandi, la capigliatura con fili di lana che fuoriuscivano da una cuffia allestita con garbo, per contenere la fluente chioma. La "pupola" era la bambola e, anche il negoziante che vendeva bambole per le figlie dei ricchi, non conosceva la "pupola" che mamme e nonne confezionavano in casa con una fantasia interpretativa grandioso. Il tutto "s'à gipèa" (si accorpava) con l'ausilio della macchina per cucire e arrivare al prodotto finito.

In pochi vecchi libri ho ritrovato quel termine, ma da mio suocero Renzo e da sua mamma, nonna Paolina, si diceva solo "pupola" e mai una volta bambola. Tanto è vero che a Scuola (Elementari) quando dettero per "tema da svolgere" alle ragazze "qual è il gioco che ti piace di più?", tutte le figlie della gente comune indicavano la "pupola", mentre quelle della gente dabbene (così chiamavano gli alto-locati), indicavano la "bambola". La disputa che ne scaturiva decretava la "lotta di classe", sempre perpetuata e mai conclusiva.

Discorrere quindi di "Dialetto Bustocco "da strada" col Dialetto infarcito di "italianesimo" è come dire … .mele alle mele, pere alle pere, banane alle banane e non in generale, frutta. La differenza sta qui: nel Dialetto Bustocco "da strada" ogni genere ha il suo nome - in quello tradotto in italiano è semplicemente una semplificazione che millanta il dialetto e lo rende spurio, cioè privo di originalità. "Signori si nasce, diceva Totò e io modestamente, lo nacqui" - un mio vecchio libro è intitolato "Bustocco, lo nacqui!" in onore proprio del grande comico, ma pure in onore di mio padre e di mia madre che "mi hanno fatto"  (creato), BUSTOCCO, nativo e lavativo!

 

Gianluigi Marcora

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