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Busto Arsizio | 10 novembre 2025, 12:15

IL GIRO DEL MONDO IN TERRA BUSTOCCA. Alla scoperta del “Gigante d’Africa” con Jennifer Ogoo, una vita tra Italia e Nigeria

La quarantatreenne trasferitasi a Busto Arsizio racconta la sua terra e lo spirito dei nigeriani che sono guidati da una certezza: i problemi non finiscono mai, ma bisogna cercare di godersi comunque la vita

IL GIRO DEL MONDO IN TERRA BUSTOCCA. Alla scoperta del “Gigante d’Africa” con Jennifer Ogoo, una vita tra Italia e Nigeria

Jennifer Ogoo Sarzilla è nigeriana e italiana, originaria dell’Anambra, ma nata e cresciuta a Lagos.

Dire nigeriana però non basta. Il “Gigante d’Africa”, ex colonia britannica, indipendente dal 1960, con 230 milioni di abitanti, è stato “disegnato” in Europa ed entro i suoi confini si sono ritrovate persone con lingue, etnie, culture, religioni differenti. Le radici di Jennifer Ogoo (due nomi, uno inglese e uno nigeriano, come vuole la tradizione) affondano nella tribù Igbo, nel territorio che era il Biafra.

Jennifer Ogoo, 43 anni, vive a Busto Arsizio: è venuta in Italia per motivi familiari nel 2015, anche se inizialmente non pensava che la sua vita sarebbe stata lontana dalla Nigeria o “Naija”, come la chiamano gli autoctoni. Nello Stato affacciato sull’Atlantico, dove torna almeno una volta l’anno, lavorava in banca, mentre qui in Italia sta studiando per conseguire la laurea in economia.

Ci descrivi la Nigeria in poche parole?

«Per me la Nigeria è casa, accoglienza, un posto dove tutti ti trattano con familiarità. Anche dal punto di vista naturalistico è bellissima e variegata».

Parliamo per generalizzazioni: come sono i nigeriani?

«Sono persone felici comunque, che si divertono lo stesso nonostante la situazione. Siamo gente che non si abbatte di fronte alle difficoltà. Da noi si dice “Problem e no dey finish, make u try dey enjoy”, che significa “i problemi non finiscono mai, cerca di goderti la vita comunque”.

I nigeriani inoltre sono creativi, hanno grande rispetto per chiunque sia più anziano (anche solo una sorella maggiore), puntano molto sull’istruzione, sono orgogliosi della loro cultura e la religione è molto importante, le due principali sono cristianesimo e islam.

La nostra mentalità è improntata alla condivisione: i soldi che ognuno guadagna non solo suoi, sono nostri. Capita spesso ad esempio che chi ha più soldi paghi la scuola a ragazzi che non sono suoi figli. Tutti si danno una mano, si restituisce alla comunità un po’ di ciò che si ha. L’obiettivo è anche rendere gli altri autonomi, quindi non dando il pesce, come si dice, ma insegnando a pescare.

Qui in Italia spesso si dice “fatti i fatti tuoi” invece noi non ce li facciamo i fatti nostri perché il tuo problema è anche problema mio. Così se per strada un bambino si comporta male non sono solo i genitori che possono correggerlo. Da noi infatti si dice “Ci vuole un villaggio per crescere un bambino”. Nelle città però è un aspetto che si va perdendo».

Come trovi l’Italia e gli italiani?

«L’Italia mi piace tantissimo e con gli italiani ci capiamo, ci avviciniamo molto: basti pensare alla centralità della famiglia, all’accoglienza, alle chiacchierate che si fanno quando ci si incontra. A volte all’inizio c’è un po’ di diffidenza, ma poi le persone si aprono. Certo, ci sono anche tante persone che sono da sole.

Io prima di venire qui già conoscevo l’Italia sia perché mio marito è italiano sia perché conoscevo l’Europa tramite la televisione e i libri».

Ti manca la Nigeria?

«Tantissimo. La Nigeria è bellissima, si sta bene, anche se purtroppo negli ultimi dieci anni la situazione economica è peggiorata molto a causa di vari interessi sia interni sia esterni. E così la vita diventa più difficile.

Purtroppo per poter crescere i figli con più opportunità, la gente deve andarsene, lasciando anche ottimi posti di lavoro e dovendo ricominciare tutto da capo. Japa è la parola che usiamo per indicare la gente che va via. I miei colleghi in banca un tempo si recavano in Europa, in America e in Australia in vacanza, ora ci vanno perché non possono rimanere. Poi c’è anche il fenomeno inverso, di nigeriani che scelgono di tornare indietro perché comunque si trovano meglio in Nigeria: è la Japa da».

La Nigeria è famosa per essere ricca di petrolio: questo vi ha aiutato?

«No, tutt’altro, la scoperta del petrolio è stata la nostra rovina».

Cosa ti ha colpito di più arrivando in Italia?

«Ho realizzato che ero nera. In Nigeria non si nota il colore della pelle, non si dice “quello è nero, quello è bianco”. Qui invece mi sono sentita chiamare “ragazza di colore”. In Nigeria si chiama la gente per nome e basta».

Quali sono le principali differenze tra Nigeria e Italia?

«La prima è il tempo. Il tempo e la vita in Nigeria sono più lenti. Esiste il “Nigerian time”, il tempo nigeriano: se ad esempio un evento inizia alle 18 è normale ritardare di ore e ci si diverte comunque.

La seconda è che noi siamo diretti, se abbiamo bisogno chiediamo subito. Qui invece prima di chiedere anche solo le indicazioni stradali si cerca di fare tutto il possibile da sé. E talvolta il nostro atteggiamento in Italia viene percepito come troppo diretto.

Un altro aspetto è il tono di voce: se ci sono in giro dei nigeriani li senti. Usiamo un tono di voce alto, è il nostro modo di parlare. Anche gli italiani sono abbastanza vivaci comunque, ci avviciniamo».

Da un punto di vista culinario, andando in Nigeria che cosa non si può non provare?

«Il Jollof rice, il riso con pomodoro fritto, carne e spezie (da noi si dice che se non c’è Jollof rice non c’è festa), l’Egusi soup, zuppa con semi di melone macinati, e il pounded yam, una patata dolce tipica del luogo».

Cosa apprezzi di più della cucina tricolore?

«Tutto, cazoeula, lasagne, gnocchi, pizzoccheri».

Un saluto nella tua lingua?

«In Nigeria si parlano tantissime lingue: la prima è l’inglese. Poi c’è il “Pidgin English”, la lingua della strada che tutti conoscono. Io parlo anche l’Igbo e un pochino di altre lingue.

Un saluto in Pidgin English è “How you dey?”, Come stai?

In Igbo: “Kedu?” o “Kekwanu”? Come va?

In lingua Edo si usa molto “Doo” che vuol dire Ciao, come stai, arrivederci, bravo, tieni duro a seconda del contesto.

Siamo il Paese dei saluti, chiediamo sempre come stai, come sta il papà, come sta la mamma, i figli, il cane….».

Ma tra tutte queste lingue non può mancare anche qualche parola di dialetto lombardo…

«So qualcosa di turbighese essendo mia suocera di Turbigo: ghe n’è menga, capis no, fa frech».

Mariagiulia Porrello

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