«Ma come fate a crescere dei figli dove non c’è un semaforo? Non sanno neanche attraversare la strada». Ridono, Stefano Scotti e Federica Pozzi, ripensando all’obiezione mossa da una nonna, la mamma di Stefano, preoccupata ma a sua volta sorridente, pensando ai suoi nipoti. Stefano e Federica, ingegnere e medico, si trovavano ad Haiti, impegnati nella cooperazione allo sviluppo. Periodo tosto, post terremoto, una vicenda che scosse il mondo, dai lunghi strascichi. Puntualizzano: «In realtà un semaforo, giusto uno, c’era. Non serviva a nulla ma c’era».
Oggi abitano in una villetta, a Gallarate. Figli, due, nelle scuole cittadine. Impieghi più tradizionali rispetto al passato. Lui, radici a Lodi, lavora per una società che ha avviato, fra l’altro, un progetto per lo sviluppo tecnologico in Africa. Lei, crennese, è in forza allo staff dell’hospice, a Busto Arsizio. Alle spalle, esperienze in Congo, Etiopia, Ruanda, Uganda. E, appunto, Haiti.
Avete messo la testa a posto? O volete ripartire? «Mi sa che a ripartire ci si pensa tutte le sere, prima di andare a letto» butta lì Federica. Altra sghignazzata.
Procedendo con ordine, Stefano: «Il mio primo approccio con l’Africa risale al 1993. Costa d’Avorio, un viaggio con la parrocchia. Rimasi folgorato. Fin da allora non sono mai riuscito a vedere l’Africa come un problema. E tanti partecipanti a quella avventura sono rimasti presi». Dalla suggestione si è passati alle cose serie: «Lavoravo all’università e bisognava portare internet nei villaggi, in Ruanda. Io mi occupavo di innovazione nella didattica. Il progetto era conseguente al genocidio del 1994 (morirono, in pochi giorni, in non meno di 500.000, secondo alcune stime un milione, ndr). Occorreva migliorare la comunicazione, a partire dalle scuole, per contribuire al processo democratico, per aprire un confronto fra le persone e con il mondo. Ricevetti l’idea in una piazza di Lodi, grazie al Movimento per la Lotta alla Fame nel Mondo, e la portai in Università. Piacque. Da una scuola si passò a una decina. Dopo il Ruanda toccò a Congo, Etiopia, Uganda: il progetto era ripetibile. A un certo punto ho avuto la possibilità di stare in Africa in modo permanente, anche lavorando sulla distribuzione dell’acqua, coordinando lavori tecnici e sociali».
Parola a Federica: «Io studiavo a Milano e ci vivevo. Volevo proprio partire. Qualche esperienza all’estero con associazioni. Grecia e Albania. Ammetto che ho combinato poco. Almeno rispetto alle mie aspettative. Ho iniziato a frequentare l’Opera San Francesco, a Piola, allora una realtà piccola e di frontiera. Stefano l’ho conosciuto a Gallarate, grazie a un incrocio di circostanze: un compagno di studi lodigiano e una conferenza con il giornalista Raffaele Masto, organizzata dalla professoressa Cristina Boracchi. Per me è stato un colpo di fulmine. Ancora adesso non so dire se per Stefano o per l’avere afferrato la possibilità di partire. Forse tutt’e due». Altre risate.
Di nuovo Federica, che sulle peripezie della famiglia ha scritto un libro, “Non sono comoda da nessuna parte” (Marna, foto della cover in fondo): «Alla fine, previe esperienze messe a punto col San Raffaele, mi sono laureata con una tesi incentrata proprio sull’Uganda. Abbiamo deciso di sposarci nel 2010. E, dopo il matrimonio, si è partiti insieme: Sud Sudan». Arriva il richiamo di Haiti.
Stefano: «C’era stato il terremoto, come noto devastante. ll Paese era una fucina di progetti, si percepiva la possibilità di fare qualcosa di buono». «E in Sud Sudan c’era malaria, pannolini zero» aggiunge Federica. Dettaglio non di poco conto, bimbo in arrivo. Primogenito presto accompagnato da un fratello. Giacomo e Pietro, oggi 11 e 10 anni, hanno mosso i primi passi proprio ad Haiti. «Haiti è un Paese che ti studia – raccontano Stefano e Federica – c’è l’orgoglio per il fatto di essere la prima Repubblica nera, la prima colonia ad avere cacciato i francesi. Non è come quell’Africa che ti viene incontro, è un posto che va scoperto e capito. Poi nasce l’amore, capisci la fierezza, le difficoltà e le persone. C’è un attaccamento alla bandiera incredibile».
Non stupisce che siano nati legami umani indissolubili: «All’asilo, i nostri figli erano gli unici bianchi. Hanno avuto un’insegnante meravigliosa. Era una scuola di frontiera, i bambini uscivano che sapevano leggere e scrivere in francese. Le condizioni, nel Paese, si sono deteriorate, oggi non ci si potrebbe stare, i racconti di suor Marcella Catozza (qui un suo recente incontro a Busto Arsizio, Ndr) dicono tanto».
Queste le ragioni del ritorno? Stefano: «Sì e no. Arrivava l’Expo e il nostro progetto, là, stava finendo. C’era un motivo per tornare, lavorare per il padiglione Haiti. Era bello esserci. E poi Giacomo si è ammalato. C’è stata tensione, preoccupazione». Federica: «Forse peggio. Ci siamo proprio spaventati. Inoltre, io mi occupavo di nutrizione ma non facevo il medico».
Rientro. Federica: «Io ho avuto accesso a una borsa di studio e ora mi occupo di cure palliative a Busto. Anche quella è una frontiera». Stefano: «Io sono collassato verso il mio precedente mondo. Sono passato dalle riunioni sotto agli alberi di mango a quelle negli uffici, in cui ci si guarda a stento in faccia. Però lavoro per una società informatica che dimostra attenzione, che mi permette di mettere a frutto le mie competenze. Domanda: perché non proviamo a utilizzare sviluppatori ruandesi? Da due anni si lavora con un team di 21 persone che si danno da fare là. E là vogliamo crescere».
Se i vostri figli vi dicessero: voglio partire? «Sarebbe bellissimo. Soprattutto se la partenza servisse a mettere a frutto delle competenze. L’Italia è un grandissimo Paese, pieno di opportunità. Ma spesso costruiamo recinti. Rischiamo di soffocare. Ovviamente le radici lavorano. Le radici servono». Giacomo e Pietro hanno anche nomi in lingua kiswahili: furaha, gioia, e neema, grazia. Si guarda al mondo e al futuro. Semafori ce ne saranno? Forse sì e forse no.