Venerdì 2 agosto 1968. Un giorno che Oliviero Grimaldi, nonostante all’epoca avesse poco meno di quattro anni, non potrà dimenticare.
La giornata non lasciava presagire nulla di quello che sarebbe accaduto: il piccolo era stato accompagnato dal papà all'aeroporto di Fiumicino e da lì sarebbe partito per Malpensa, dove lo attendeva sua mamma. Avrebbe viaggiato da solo, affidato al personale di volo.
Un viaggio non lungo, ma una vera avventura ai suoi occhi di bambino.
Sono trascorsi 54 anni dai quel viaggio di cui, ancora oggi, Oliviero non ha ricordi coscienti: solo grazie a un percorso terapeutico successivo ha potuto ricostruire tutto quello che accadde durante il secondo disastro aereo più grave legato all'aeroporto di Malpensa.
L'atterraggio d'emergenza
Insieme ad altri 94 tra personale e passeggeri, quel giorno Oliviero si imbarcò sul volo DC-8 dell’Alitalia diretto a Montreal, con scalo a Milano Malpensa, dove sarebbe, appunto, sceso. Ai comandi del quadrimotore jet, il pilota Fabio Staffieri, pronto ad affrontare un volo in realtà sconsigliato dalla Torre di Fiumicino a causa del maltempo che si stava abbattendo sulle Prealpi.
Era un aereo intercontinentale, grande e, soprattutto, pieno di carburante quello che si preparava a volare in condizioni alquanto difficili.
Il temporale annunciato arrivò, causando alcune interferenze elettromagnetiche alla strumentazione di bordo. Ci mise del suo anche la nebbia che ostacolava ancora di più la visibilità a terra.
Il pilota avrebbe dovuto far atterrare l’aereo sulla pista di Malpensa, ma si rese conto troppo tardi di essere sopra la pista dell’aero-club di Vergiate, troppo corta per consentire a un aereo di quella dimensione di fermarsi in sicurezza. Non ci fu alternativa, visto che l’aereo ormai stava scendendo: nulla avrebbero potuto i tentativi del pilota di risalire, ormai il DC-8 era davanti al Monte San Giacomo.
L’impatto fu importante, «l’aereo atterrò nei boschi, si vedeva la striscia di abeti travolti e spezzati», ma il pericolo maggiore era rappresentato dal carburante ancora presente nel quadrimotore, che presto iniziò a fuoriuscire.
Le conseguenze dell’impatto
«Non ci furono vittime dovute all’atterraggio – racconta, infatti, Oliviero – ma a causa dell’incendio successivo. C’era molta confusione, tutti cercavano di scappare prima che l’aereo esplodesse, io mi sono salvato grazie a un coscienzioso steward che si occupò di me, mi fece scendere e mi allontanò. Un’altra coppia di bambini non fu così fortunata e perse la vita», come altre dieci persone. Furono dodici, infatti, le vittime.
I sopravvissuti furono soccorsi in breve tempo dagli abitanti del vicino paesino di Cuirone.
Ma le difficoltà non erano finite: a Malpensa, parenti e amici dei passeggeri stavano ancora aspettando che l’aereo arrivasse. Un lungo momento di angoscia che divenne infinito visto che non arrivavano notizie precise: «All’inizio non si sapeva come mai l’aereo non fosse atterrato, poi le prime Ansa parlarono solo di “caduta”, senza riferire se ci fossero sopravvissuti. La Polizia di Stato consegnò un foglio con l’elenco degli ospedali della zona in cui eravamo stati portati, mia mamma penso si sia messa in macchina e li abbia girati tutti».
Alla fine, il piccolo si ricongiunse con sua mamma, magari non come avrebbe voluto, con un taglio sulla gamba ma, per il resto, illeso, senza riportare alcuna conseguenza fisica a lungo termine.
Oggi Oliviero è sereno, vive la sua vita con la certezza di essersela cavata, «ma non ho più ripreso un aereo fino ai 18 anni. Poi ho trovato la risolutezza per farlo, ora volo abbastanza regolarmente, consapevole che un evento così possa capitare solo una volta nella vita».