«Caio, cosa scriviamo oggi?». «Nessuno mi parla». «Come nessuno? Chiama Cimberione»: quante volte con Francesco Caielli nella vecchia redazione della Provincia ce lo siamo detti, nelle sere d’estate o nelle mattine gelide d’inverno (di più verso sera, dopo le 18, quando cresceva l'adrenalina per la pagina della Pallacanestro Varese ancora bianca e non bastava neppure "consigliarci" davanti a un Apollo pur di avere qualcosa da scrivere e cercare qualcuno che avesse qualcosa da dirci ogni giorno).
Era lì che lui si palesava, come un vero Cavaliere - non basta avere un titolo per esserlo, bisogna avere un cuore, e pure grande - e sempre con una parola o una frase da titolo, non perché cercasse la prima pagina ma perché, per lui, quel giudizio netto con cui ci dava dentro e che veniva da dentro era un moto di coscienza, spontaneo e viscerale.
Bastava un fiammifero per riempire il vuoto, accendere Renzo Cimberio - ex sponsor della Pallacanestro Varese e imprenditore scomparso a 83 anni (leggi QUI) - e accenderci, una sferzata da patron qui, un aneddoto là e un ricordo che a volte partiva da San Patrignano (portava la squadra a scoprire l'essenza del sacrificio e della redenzione che ci sono là dentro, portandole fuori), oppure da quella fabbrica, la Valve Cimberio, che per lui era un parquet dove tutto ciò che si muoveva era considerato figlio, sangue del suo sangue, una partita dove lo spirito operaio arrivava dall'alto e non dal basso.
Cimberione per noi era Babbo Natale, il personaggio di una favola da leggere alla nipotina per farla addormentare in cui il Cavaliere buono arriva con la sua spada e la sua luce (ma anche con i suoi investimenti, aggiungerebbe l'amico Giancarlo Giorgetti) a rischiarare il buio. Era lealtà, amicizia, riconoscenza. Era l'esatto opposto del paraculismo, del festival dell'ipocrisia e dell'ovvietà, dello sponsor che mette i soldi e quindi anche il becco negli articoli e sul lavoro. Era sì Cavaliere, ma non Re, e quindi noi non eravamo sudditi. Al massimo, scudieri pronti alla battaglia.
Se c'era da parlare a un giornalista, lui lo faceva senza nascondersi dietro le quinte, senza "imboccarlo", senza tirare i fili: semplicemente, quel che diceva si scriveva, dalla prima all'ultima virgola. E se per caso lo rimbrottavano, anche in società, per aver proferito parole che magari avrebbero potuto terremotare l'ambiente, la volta dopo l'avrebbe fatto lo stesso, anzi di più, convinto che la verità non è mai abbastanza e che i panni si lavano in pubblico, quando il pubblico, come nel caso della Pallacanestro Varese, è il tuo vero e grande interlocutore.
Pane al pane e vino al vino: con la Provincia, con i tifosi, con gli allenatori, con i dirigenti, con gli altri sponsor, con gli avversari.
C'è una foto, bellissima, di Enrico Scaringi in cui, con una lieve alzata di mano, Renzo Cimberio ricambia l’applauso della curva (la vita è una curva, non un rettilineo) perché con loro si comportava come con noi e con tutti: se c’era qualcosa che non andava, oppure serviva proteggere o caricare la squadra, andava a parlare ai “ragazzi”, e tutti ne uscivano più forti.
Questa capacità di essere ruspante e diretto, di andare "dritto per dritto" al cuore del problema, a costo di metterlo in piazza, perché per lui la piazza era ancora il centro dell'universo, lo rendeva unico, sempre presente, dolce e atteso come le persone che non si negano e non negano ciò che sono e che pensano.
Renzo Cimberio ci ha fatto assaporare l'odore della battaglia, il profumo della libertà e l'indispensabilità delle cose buone e vere di una volta, perché non rimangano tali - appunto - solo una volta. E l'ha fatto anche quando alcuni storcevano il naso di fronte alle sue incontenibili interviste (si può mai contenere il mare?). I cavalieri senza macchia ne’ paura, fanno così.