Perché volevi fare l’arbitro? La domanda, al festival SportivaMente, sorge all’inizio dell’incontro con Federico Marchi, giornalista, direttore di gioco, osservatore, responsabile della comunicazione nazionale per Aia. L’interrogativo nasce, in parte, dal titolo scelto per la sua opera, dedicata al ruolo del "fischietto" e all’esperienza personale. "Volevo fare l'arbitro" sembra alludere a una sorta di vocazione. La risposta spiazza: «Fai l’arbitro perché sei un calciatore scarso ma, se dirigi la partita, vivi comunque da protagonista lo sport. Oppure lo fai perché sei semplicemente affascinato da quel tipo di figura. Io ammetto che non so perché ho fatto l’arbitro. Ero al liceo, ho risposto a una proposta, via lettera, per partecipare a un corso. 30 anni dopo, sono ancora qui. Rispondere a quell’invito è stata la scelta più importante della mia vita».
Una scelta precocemente foriera di responsabilità. «Non ci si pensa abbastanza. Ho esordito a San Remo, non lontano da casa, con bambini di 11 anni. Ero così emozionato che dimenticai di fare partire il cronometro. Andò tutto bene. Bisogna tenere presente che, all'inizio, anche tu sei giovanissimo. Ma fischi e tutti si fermano. Subito ti rendi conto dell’importanza che ha il ruolo. E' fondamentale».
Ci si sente soli? «Fu mio padre, cui il libro è dedicato, ad accostare le figure dell’arbitro e del portiere, lui che giocava tra i pali. Oggi, tra i professionisti, si arbitra in team ma, ancora oggi, devi avere la forza di tenere una situazione, al netto di errori che, ovviamente, puoi fare». Come è cambiata la figura dei “fischietti”? «Con i dilettanti, è rimasta quella, stesse emozioni. A livelli superiori, conta il lavoro con la tua squadra e con la tecnologia».
Sostegni che, notoriamente, non mettono al riparo da critiche o, peggio, attacchi. «Mia mamma – ammette Marchi – è venuta a seguire una mia partita solo una volta. E mi ha confessato che, dopo pochi minuti, è tornata in macchina. Ci vogliono preparazione e formazione. Se, poi, si commettono errori, occorre l’autoanalisi, bisogna farsi domande. Così si può essere sereni. Troppo spesso l’arbitro non viene visto come parte del gioco. Invece lo è, anche se è un ragazzo. E sta permettendo agli altri di confrontarsi in campo».
Sul palco anche un ospite importante come il vicepresidente nazionale dell'Associazione Italiana Arbitri, Alberto Zaroli, esponente illustre della sezione di Busto, a cui ha detto di essere ancora molto legato.
Con lui il presidente dei fischietti bustocchi Diego Carrara e "l'associato" Maurizio Artusa, assessore allo Sport.