Vito Lascaro non vuole raccontare la sua storia: è una come tante altre. Chiede solo una cosa, il bustocco. Vuole che l’handbike venga considerato come uno sport vero e proprio, al pari del ciclismo. Afferma: «Non voglio che la gente guardi noi che pratichiamo handbike e dica "poverini". Non dobbiamo essere visti come portatori di handicap. Noi siamo atleti, come quelli normodotati».
Quando è avvenuto l’incidente, nel 2013, Vito Lascaro era già un ciclista. Si è appassionato all’età di 20 anni circa, negli anni in cui era di moda la mountain bike. Ha iniziato così, con un gruppo di amici, e non ha più smesso.
«Dopo quello che mi è successo, ho cambiato la posizione, ma non la mentalità».
La sua forte passione lo ha portato a non mollare dopo l’incidente che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Non è stata una scelta indotta da altri. «La forza per ricominciare ce l’hai dentro», dice.
È stato 6 mesi in ospedale, dove le società sportive andavano a proporre le loro attività per chi, come lui, aveva subito danni fisici permanenti. Quando è arrivato il turno del ciclismo, ha deciso. Non aveva alcun dubbio. Così, si è unito alla Polha-Varese.
Ha iniziato una vita da atleta, impegnativa e piena di sacrifici. «Se si vogliono raggiungere certi livelli, si deve stare attenti al cibo e seguire delle tabelle di allenamento. Certo, non è obbligatorio, ma se non lo fai ti devi accontentare».
Segue queste regole perché ha uno scopo. Secondo lui, deve essere fatto volentieri, mai controvoglia. Allenarsi è faticoso, e se non piace diventa ancora più pesante.
Si allena 6 o 7 volte alla settimana durante tutto l’anno. Quasi ogni giorno va verso il lago di Varese. Guida, scarica la bicicletta, mette in macchina la sedia a rotelle, si allena, carica di nuovo la bici e torna a casa. Tutto in completa autonomia. In tutto, gli ci vogliono circa 4 ore, di cui 1 ora e mezza o 2 sono di allenamento effettivo.
«La cosa bella dell’handbike è che l’età conta fino a un certo punto. Però, l’allenamento va preso con serietà, perché non ti regala niente nessuno, e c’è tanta concorrenza», dice.
Ha sempre avuto la passione per l’agonismo. Ama confrontarsi con gli altri: «L’adrenalina che senti mentre sei lì sulla linea di partenza e aspetti è la droga migliore», dichiara.
Ogni anno partecipa a 20 gare circa. Queste competizioni consistono nel ripetere per un’ora un circuito cittadino lungo minimo 4 km. Trascorso il tempo, si fa un altro giro. L’atleta che per primo finisce l’ultimo giro ferma anche tutti gli altri e mette fine alla gara. Vince chi ha fatto più giri.
Il 10 ottobre Vito Lascaro ha vinto una di queste competizioni, confermando il titolo di Campione Lombardo che detiene dal 2019. Racconta: «La gara è partita male per la pioggia, e non ha mai smesso di piovere per tutto il tempo. Ma c’era in palio la maglia di Campione Lombardo. Ci tenevo, e ce l’ho messa tutta, fino alla fine».
Nella gara non solo si è aggiudicato il titolo regionale, ma anche il terzo posto assoluto.
Dopo il successo, il Campione lombardo non si ferma. «Ora la mia attenzione è sul prossimo obiettivo: l’ultima tappa del Giro d’Italia sarà domenica 16 ottobre, a Pisa», dice. Ad ora è secondo in classifica, e solo 8 punti lo separano dal primo. Spera di fare una buona prestazione e, magari, di vincere. Sogna di indossare la maglia rosa, simbolo della vittoria.
Si allena intensamente fino a 2 o 3 giorni prima della gara e il sabato risposa, per poi disputare la competizione di domenica. Questa è la sua routine per tutta la stagione. In generale, sono previste 3 settimane di allenamento inteso, e una di scarico.
Di solito si prende una pausa di 15 giorni verso fine ottobre, conclusa la stagione. «Stacco dall’allenamento perché me lo dice il coach, perché fa bene al corpo. Dopo meno di una settimana, però, mi manca già la bici. Allenarmi non è una cosa che mi pesa, anzi», dice.
Continua: «Lo sport mi dà tanta soddisfazione. Non potrei vivere senza. È qualcosa che completa la vita. Anche se non avessi questo scopo agonistico, uscirei sempre in bicicletta, perché la bici deve far parte della mia vita».
Oltre al sogno sportivo, Vito Lascaro ne ha uno sociale: «Vorrei che non ci guardassero come disabili, ma come persone normali. Servirebbe un po’ più di rispetto, anche nelle situazioni quotidiane, come parcheggiare la macchina. Non abbiamo dei parcheggi solo per noi perché siamo privilegiati. È una necessità. Vorrei ci fosse un po’ più di senso civico».
Questo è anche il desiderio di sua moglie Susanna Arnoldi. Lei vorrebbe, inoltre, che ci fosse più considerazione per gli atleti con disabilità. Racconta: «Spesso, alle gare, non ci sono giornalisti, o ce ne sono pochi. In generale, c’è poca visibilità: non vengono considerati come persone normali. Ma io vedo i sacrifici che fanno, vedo la passione che ci mettono. Non hanno le attenzioni che meritano».
La vita della signora Arnoldi è quella tipica di una moglie di un atleta. «È sacrificata, ma mi dà tanta soddisfazione. Mio marito è bravissimo, e gareggia con lo spirito giusto», dice.
Nonostante gli impegni e le difficoltà iniziali, è contenta di questo stile di vita. È contenta di aver creato non solo la sua famiglia, ma anche una più grande con gli altri atleti con disabilità e con i loro parenti. Conclude: «Ci si capisce, perché abbiamo subito tutti la stessa sofferenza. Ma io credo nella Provvidenza: tu parti e, lungo la strada, si aprono le porte».