«L’autostrada, secondo il concetto ispiratore, evita di attraversare i centri abitati, è prevalentemente rettilinea, esclude in modo assoluto i passaggi a livello, determina il raggio delle curve al massimo possibile, impone una disciplina di marcia per gli utenti, esclude qualsiasi transito di persona o veicolo autorizzato, offre una larghezza di carreggiata proporzionata al traffico, è dotata di pavimentazione liscia, omogenea e resistente, senza polvere e senza fango, ed infine consente la possibilità dei rifornimenti lungo la rete».
Sembrano parole futuriste di Filippo Tommaso Marinetti, e invece sono dell’ingegnere Piero Puricelli, creato conte di Lomnago dal re Vittorio Emanuele III per meriti di lavoro, laureato al Politecnico di Zurigo e inventore della prima autostrada del mondo, la Milano-Laghi, il cui progetto fu messo a punto nel 1922 e la pietra iniziale posata proprio cent’anni fa, il 9 settembre 1923.
L’inaugurazione, in pompa magna con il sovrano su una splendida Lancia Trikappa assieme all’ingegnere –all’inizio dei lavori la “benedizione” era stata data dal cavalier Benito Mussolini, allora Presidente del Consiglio- avvenne a Lainate il 21 settembre 1924, per il primo tratto da Milano a Varese, costato 90 milioni di lire.
Puricelli, in un libro pubblicato nel 1925, traccia la storia dell’autostrada a pedaggio, descrive puntualmente le caratteristiche dei lavori, con la Milano-Laghi divisa in cinque tronchi «per complessivi km. 84,619», e la tipologia dei terreni incontrati durante gli scavi. Puricelli loda «rettifili lunghi, dieci, undici e perfino diciotto chilometri», ponti «in calcestruzzo di cemento armato, con soletta e nervatura», adatti a sostenere il peso di «veicoli da trenta a dieci tonnellate con criteri molto larghi, così da soddisfare anche ai prevedibili bisogni avvenire del traffico».
Alla fine 4.000 operai costruirono 219 manufatti, con 200mila quintali di cemento, 65mila metri cubi di ghiaia (provenienti dalla Cave Puricelli di Bisuschio) e 32.500 metri cubi di sabbia. Non mancarono cinque rivoluzionarie betoniere Koering-Paving, importate dall’America, che in un giorno preparavano 1.200 metri cubi di calcestruzzo.
Per compiere il percorso intero di andata in motocarrozzetta, nel 1925 si pagavano 10 lire, con «cyclecars, vetturette e camioncini con motore sino a 17 Hp e rimorchi», 15 lire, mentre le «vetture e camions con motore di oltre 26 Hp» lasciavano un pedaggio di 25 lire e fino a 75 invece per «autobus e grandi vetture con oltre 20 posti». Una curiosità: «Alle vetture con scappamento libero, tipo costruito esclusivamente per corsa, sono concessi biglietti di passaggio a tariffa triplicata». Non esistevano caselli, ma case cantoniere, con sosta obbligatoria per il pagamento del pedaggio, e l’autostrada chiudeva all’una di notte per riaprire alle sei.
Scrive Puricelli: «Il cantoniere titolare vi abita con la famiglia: occorrendo, e sempre ai capi-tronco, è coadiuvato da un cantoniere aggiunto. Alla pulizia della linea provvede il cantoniere ciclista. Il cantoniere veste la tenuta e saluta militarmente tutte le vetture. Nelle principali cantoniere vi sono distributori automatici di benzina, depositi di olio, gomme e quant’altro può occorrere al comune rifornimento». A scanso di equivoci, «agli agenti incaricati della custodia e vigilanza delle Autostrade può venire concesso dall’autorità prefettizia il permesso gratuito, oltre che per il porto d’armi lunghe da fuoco, per il porto d’armi corte da fuoco e cioè per le rivoltelle e le pistole».
Una cartolina dell’epoca mostrava “Varese e la sue comodità”, indicando come vie d’accesso alla città la carrozzabile, la ferrovia e la nuovissima autostrada, preludio a quella rivoluzione del traffico su gomma che avrebbe tristemente portato alla dismissione della rete tramviaria, orgoglio della Città Giardino Belle époque.
Un’autostrada che entrava direttamente in città, segno allora di progresso, ma in tempi recenti di assoluto caos viabilistico che si spera possa attenuarsi con la fine degli eterni lavori per il nuovo largo Flaiano. Del resto nel 1925, secondo i dati citati nel libro da Puricelli, il traffico autostradale consisteva in 800 macchine al giorno, nessuno allora avrebbe immaginato che in via Magenta si sarebbero catapultate migliaia di automobili con code chilometriche in uscita. Il buon Puricelli aveva preventivato mille macchine quotidiane, si doleva per non aver raggiunto subito il numero di utenti previsti, e si lamentava «dell’innata diffidenza del pubblico, che accede alle idee ed alle cose nuove con una certa lentezza».
L’autostrada in città è lì e ce la dobbiamo tenere, negli anni Sessanta era la porta delle vacanze, un viaggio fuori dalle normali provinciali era un avvenimento, si portava la macchina a «lavare e ingrassare», a cambiare l’olio e le candele, dare un occhio alla batteria e alle gomme e un check alla cinghia di trasmissione, pieno di benzina in Svizzera e via, di solito verso la Liguria. Per chi era bambino allora, il divertimento consisteva nell’indovinare a quale città appartenessero le targhe “strane” che si vedevano in autostrada, da Sassari a Chieti con la difficilissima Isernia che nessuno conosceva.
Allora come oggi, al ritorno ci si sente davvero a casa quando al Loreto appare il lago di Varese con il Sacro Monte e il Campo dei Fiori, e il Rosa sullo sfondo, un colpo d’occhio che il mondo ci invidia, e quasi ci si augura che ci sia un po’ di coda proprio lì, per gustarselo ancora per un poco. Alla partenza invece, quasi non lo si vuole guardare, per paura di provare una nostalgia preventiva, quasi un senso di colpa per abbandonare un luogo così incantato, magari soltanto per recarsi a Milano.
Nel 1924, in Italia circolavano non più di 85mila veicoli, metà dei quali immatricolati in Lombardia, la gente si spostava in bicicletta e nelle campagne con il calesse, ma i “sciuri” di Milano che villeggiavano a Varese già correvano con le loro Lancia e Alfa Romeo, Isotta Fraschini e Fiat, e l’autostrada li portava da noi «in un boff».
Pensare che dalla genesi del progetto all’inaugurazione del manufatto corsero soltanto due anni, mentre oggi per realizzare soltanto una rotonda i tempi sono biblici, ci invita a pensare come una volta, oltre alla pura tecnica esecutiva ci fosse anche una sconfinata passione per la propria terra e le migliorie che una strada rivoluzionaria avrebbe portato all’intera comunità. La stessa velocità tra idea e prodotto che in poco tempo portò alla costruzione della Varese turistica della Belle époque, con i grandi alberghi, le tramvie e le funicolari.
E riguardando la vecchia cartolina con le “comodità” di Varese, vengono in mente invece i disagi odierni, le code infinite per entrare in città, gli incidenti all’ordine del giorno, i lavori stradali perenni, segno di una modernità asfissiante e non più gestibile. Forse oggi il conte ingegnere Piero Puricelli si sarebbe comperato una bicicletta elettrica.