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Storie | 20 dicembre 2022, 08:00

L'INTERVISTA. «Io medico di famiglia che amavo prendermi cura dei miei pazienti, ho detto basta. Non voglio più fare la burocrate»

La dottoressa Chiara De Bernardi ha rinunciato alla professione che adorava: «Con il Covid eravamo soli, ho affrontato i primi casi con mantella da tinta del parrucchiere e mascherina usata, ma era un'emergenza. Poi è andata sempre peggio con il carico burocratico». Il crollo: «Quando una volta una paziente mi ha detto, prima lei mi dava retta». La scelta: «Oggi lavoro in una Rsa e sono tornata serena»

La dottoressa Chiara De Bernardi

La dottoressa Chiara De Bernardi

La dottoressa Chiara De Bernardi amava fare il medico di territorio, ce l’aveva nel sangue: «Ho sempre respirato l’odore dell’etere, del cloroformio… mio papà era impiegato all’Ufficio Igiene». Ma ciò che conta di più: «Mi è sempre piaciuto prendermi cura della gente, più che curarla».  

Quei primi, bellissimi anni

Eppure con grande dolore, dopo 12 anni, ha deciso di lasciare il suo incarico. Ha scelto di andare a lavorare in una Rsa, dove oggi è felice di prendersi cura degli anziani. Ne aveva tanti, di anziani, nel suo studio quando fino a poco tempo fa faceva il medico di famiglia. Ma continuare a svolgere il suo lavoro non era più sostenibile, afferma. Lo spiega in un momento in cui il territorio sta avvertendo profondamente la carenza di medici di base e ci sono stati diversi pensionamenti, ma anche rinunce di medici che erano appena all’inizio del loro percorso. Accetta di parlare con noi, Chiara De Bernardi, anche se le fa male, per spiegare anche il punto di vista dei dottori del nostro territorio in questo momento storico.

Si commuove mentre ripercorre la strada, iniziata nel 2010 a Busto Arsizio: «Sono diventata medico di famiglia a Sacconago, mi sento di Sacconago. Sono stati almeno sei anni bellissimi, finché hanno separato Asst da Ats. Si è cominciato con le mail e già qui abbiamo sentito il peso della solitudine». Anche il carico burocratico, come si lamentano i colleghi? «Sempre di più, ma io avevo la segretaria, la signora Barbara che mi ha sempre supportata, anche a livello umano. Mi ha sempre tolto la burocrazia, mi faceva triage al lavoro e si creava l’ambiente familiare. Adesso il mio medico ha la app. Va benissimo, ma che rapporto umano ha una app?».

La mazzata Covid

La mazzata arriva con il Covid e la tempesta che sembra travolgere tutto: «Un giorno ti mandavano la mail con delle indicazioni che non si riuscivano a mettere in pratica, come segnalare i casi al numero verde.  Mi rendo conto che erano all’inizio, incasinati. La settimana dopo, la flow chart in un modo, poi le correzioni… ma intanto noi abbiamo tutto il resto da fare. Si è chiesto al medico qualcosa che non poteva essere. C’è stato uno strappo… la gente ti chiede di essere medico, il sistema di fare il burocrate e fare il medico quando hai tempo. Ci siamo sentiti palline da ping pong». 

La dottoressa De Bernardi ha una figlia con una disabilità: non poteva frequentare riunioni serali; incontri di formazione sì, ma «quando poi li hanno spostati da Busto a Varese e Como, non ci sono più potuta andare - ricorda - Per fortuna avevo appunto la segretaria, per cui ho pagato in 4 anni 17mila euro… ho provato a chiederli indietro in base all’accordo collettivo nazionale, ma con quelli collettivi regionali non si poteva, non c’erano le risorse.  C’è una legislazione lacunosa in proposito. Avevo chiesto già all’inizio una deroga per gravi motivi familiari agli accordi collettivi nazionali e avere meno pazienti, per seguire mia figlia. Il mio stipendio era di 2mila euro al mese, poi pagavo la segretaria. Mio marito ha dovuto fare il part-time. Una persona che ha un familiare disabile in casa, è meglio che non faccia il medico di base...».

Come macchine

La pandemia aggrava tutto: «Durante il Covid si è toccato il fondo. Eravamo macchine e lavoravamo finché avevamo sintomi di usura, al che dovevamo isolarci. Vivevamo nel terrore, tutti i giorni a comprarci i dispositivi di protezione. A trovarli».

Già, la carenza dei dispositivi di protezione: «Si sapeva che c’era un’emergenza, io di questo non faccio colpa alla Regione, era una questione nazionale. L’Istituto superiore di sanità, l’Oms non prevedevano… la pandemia in arrivo? Mi ricordo, ero tornata dalla Francia il 22 febbraio, il 24 c’era chiuso tutto. Una bambina piangeva nel bowling dov’eravamo l’ultima sera, c’è un virus, stanno chiudendo… Io andai da lei e la rassicurai: ma no, io sono un medico, ce l’avrebbero detto… Pochi giorni dopo ero a cercare l’Amuchina e non c’era più».

La voce, le si spezza. La dottoressa De Bernardi successivamente ha seguito anche le sedute della Fondazione Ania per chi si era trovato in trincea durante il Covid: «Mi hanno aiutato, ma la paura, il senso di inadeguatezza rimangono. Io all’inizio sono andata dalla parrucchiera e mi sono fatta dare una mantella da tinta. Ho fatto la prima visita così, e con i guanti e la mascherina Chicco che avevo per i bambini ammalati. L'ho usata, per giorni, sempre quella». Poi la dottoressa si sente male: fa la Tac, il tampone arriva solo molto più tardi e risulterà negativa.

L'emergenza scuote tutto e tutti, ma non è finita: «Con l’ondata dello scorso inverno il carico burocratico peggiora. Il Green Pass poteva essere riattivato dai medici di base, e noi abbiamo trascorso quella stagione a calcolare giorni di quarantena, di malattia, riattivare appunto Green Pass che non venivano attivati dal sistema. Potevo capire nel 2020 la trincea, mi ha spaventato ma l’ho fatta, per senso del dovere». Ma adesso, un anno e passa dopo, no.

«Prima mi dava retta»

Un giorno, in quella trafila che assilla, entra una paziente e la dottoressa vedendo tutta la gente fuori in attesa – nel frattempo, le persone in cura erano diventate quasi 1.400 - , la invita a fare in fretta. La donna, ferita, le risponde: «Prima lei mi dava retta». Per un medico come Chiara De Bernardi, che ha sempre dato tutto ai suoi pazienti, è uno schiaffo

«Sì, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso – spiega – assieme alla questione dei piani terapeutici, altro peso ricaduto su di noi. Non si può dire dopo il Covid che i medici dell’ospedale sono tutti eroi, e noi del territorio non serviamo a niente. Siamo stati il punching ball di tutti. Invece, siamo l’ultimo baluardo della medicina gratuita».  E fa un paragone: «Ci sono i macrofagi, gli “spazzini” che guardano e bloccano sul nascere i problemi. Il macrofago si rivolge al linfocita e dice: intervieni, che c’è questo problema. Quanti pazienti abbiamo curato, senza dover mandarli ai linfociti dell’ospedale».  

Lasciare questo lavoro, la sua gente, le è costato moltissimo. Era a fare visite mentre persino sua mamma aveva problemi di saturazione e doveva essere ricoverata: ha dovuto chiedere aiuto a un familiare, quel giorno. Prima i pazienti, sempre e non certo per i soldi. Ha la soddisfazione di non aver perso nessuno per Covid.

«Mi hanno tolto il legame speciale con i pazienti»

Capisce però quei medici che oggi non se la sentono: «Il lavoro deve dare soddisfazione e far sentire vivi. Se questa situazione non permette di avere un rapporto con il paziente… non si è studiato per fare il burocrate. A me è stato tolto il legame speciale che avevo con i pazienti, ho lottato ritagliandomi fino all’ultimo il tempo per le visite a domicilio. Si devono rendere conto che le regole vanno cambiate».

Oggi la dottoressa De Bernardi lavora in una Rsa appunto, poi fa agopuntura e la chiamano per visite a domicilio. 

Una scelta di vita, non per denaro: «Sì, mi ha ridato proprio una speranza. Al mattino del lunedì vado a lavorare serena e vivo il bello di lavorare in un gruppo dove ci sono figure diverse». Una squadra, non un guerriero solitario.

Marilena Lualdi

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