Erano gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso. Nel testa a testa fra testate per la conquista del primato di copie in Italia, Repubblica pensò di sfidare il Corriere a casa sua e inaugurò una sezione di 24 pagine tutte dedicate a Milano e alla Lombardia. A capo della redazione milanese venne spedito Mino Fuccillo, firma di lusso delle pagine politiche e, allora, uomo di fiducia di Scalfari & C.
Fuccillo si diede da fare per allestire una redazione pronta all’uso: giornalisti già rodati, con buona esperienza, che conoscessero la città. Un gruppetto di “prêt a’ imprimer” del quale facevo parte anch’io. Approdare a Repubblica in quegli anni era un’esperienza unica. Era il quotidiano che aveva cambiato il modo di fare giornalismo in Italia, significava partecipare a una rivoluzione.
Il Corriere però non stava a guardare e dopo pochi mesi cominciò a rastrellare nuove forze su Milano. E fra gli interpellati, ci fui anch’io. Era un’offerta corposa, per di più formulata da quella che allora era la Cassazione dei quotidiani. Una specie di Nazionale, magari un filo paludata, ma con pezzi da novanta in ogni redazione.
Quando dissi a Fuccillo dell’offerta tentatrice, per tutta risposta mi mise in mano un biglietto aereo per Roma. «Domani mattina vai da Barbapapà (era in soprannome affettuoso che i redattori avevano affibbiato al direttore) e te la vedi con lui».
Nell’ufficio di Scalfari ci ero stato una volta sola per l’assunzione. Mi accolse come un amico di lunga data. E mi convinse a restare a Repubblica senza aumentarmi lo stipendio di una lira. Boccalone io? Può darsi. Ma grande seduttore lui.
Buon viaggio Direttore