Fabiola Tosi, 28enne, da Busto Arsizio. Vive negli Stati Uniti da diversi anni e Slowear Magazine le ha dedicato un’ampia intervista. Laurea in Economia e gestione dei beni culturali in Cattolica, master in “Arts Administration and Policy” conseguito nella capitale dell’Illinois, project manager al Peggy Notebaert Nature Museum, sempre a Chicago, vasta gamma di interessi e progetti personali che la portano a lavorare in ambiti molto diversi tra loro (è stata, fra l’altro, assistant director of Exhibitions and programs per il padiglione americano alla Biennale di Architettura a Venezia), Fabiola ha disegnato un ritratto della “windy city” vivace, non scontato. Raggiunta da l'Informazione, ricostruisce a grandi linee un percorso professionale che, negli Usa, ha subito un’accelerazione inaspettata.
«Non me ne sono andata perché determinata a lasciare l’Italia - premette - il mio arrivo qui è frutto di tante circostanze. Per esempio, Matteo, che poi sarebbe diventato mio marito, lavorava a New York ed è stato trasferito a Chicago. Io, dopo la laurea triennale, non ero entusiasta delle prospettive offerte dalla specialistica che, a mio avviso, restavano sui binari di ciò che avevo già studiato. Di qui, la scelta del master all’estero. E i conseguenti sviluppi di carriera, rapidi». In effetti, anche Slowear Magazine considera riduttiva, nel caso di Fabiola, la definizione di “cervello in fuga”: non scappava da nulla, specifica. «E anche a me – aggiunge lei, che si tiene lontana dai luoghi comuni e dal dipingere gli Usa come un paradiso dove tutto è rose e fiori – è successo di lavorare gratis, poi con compensi modesti. In ambito culturale, capita ovunque di imbattersi nel classico stereotipo: siccome chi si impegna nel settore ha, di solito, una vera e propria passione, allora può darsi da fare a qualunque condizione. Però, nel mio caso, le cose si sono evolute in fretta».
Regola o caso fortunato? «Non saprei – ammette Fabiola – a me è capitato così. Soprattutto, ho incontrato persone per le quali il fatto che fossi giovane non era un limite ma un’opportunità: quella di avere un punto di vista in più e diverso rispetto ai colleghi con un’età differente».
E Chicago, che poi è il cuore dell’intervista di Slowear Magazine? «Vivo qui dal 2015. È una metropoli e non è immune dalle dinamiche della segregazione e della gentrification. Ma resta un posto dove il neighborhood, il quartiere, nel senso migliore del termine, conta. È una città unica dal punto di vista architettonico, sorprendentemente verde e la sua proposta culturale è vivace. Non solo, i rapporti umani che ho instaurato qui sono positivi, direi familiari. Chicago è piena di italiani, ma ho allacciato legami anche con persone che provengono da culture profondamente diverse tra loro. Il fatto di essere venuta qui per studiare sicuramente è stato di aiuto, mi ha permesso di fare conoscenze in fretta».
Dunque nessuna tentazione di tornare in Italia? «Ogni tanto Matteo e io ne parliamo. Vista dagli Stati Uniti, l’Italia è un Paese migliore rispetto a come lo dipingono i suoi cittadini. È vero quello che si dice, cioè che tendiamo a criticare perdendo un po’ di vista le nostre potenzialità e le nostre bellezze. E poi mi capita di pensare a come l’esperienza che ho maturato possa dare un contributo altrove. Tornare in Europa, io la vedo come un unicum di cui l'Italia fa parte, mi permetterebbe di scoprirlo. E, ovviamente, mi avvicinerei agli affetti di una vita, alla famiglia. Certo, per uscire dalle ipotesi astratte, bisognerebbe ragionare su eventuali opportunità».
In attesa di sviluppi: buon lavoro!