Nell’aula bunker del Tribunale di Varese si è tenuta oggi, 3 ottobre, un’altra udienza del processo a carico di Marco Manfrinati, l’ex avvocato di Busto Arsizio imputato per l’omicidio di Fabio Limido e per l’aggressione alla figlia di Limido e sua ex moglie Lavinia, fatti avvenuti il 6 maggio 2024 in via Ciro Menotti a Varese. A deporre, tra gli ultimi testimoni dell’accusa, è stato il dottor Zizolfi, medico psichiatra e psicoterapeuta, attivo tra Lugano e Como, chiamato in qualità di ausiliare tecnico.
Lo psichiatra su Manfrinati: una personalità complessa ma non patologica
Zizolfi ha ricostruito i profili psicologici della coppia, Marco Manfrinati e Lavinia Limido, esaminati nell’ambito della separazione. Lavinia è stata descritta come «fragile dal punto di vista emotivo, con sintomi di ansia, umore instabile e forte dipendenza interpersonale». Diverso il quadro di Manfrinati, caratterizzato da «impulsività, suscettibilità al rifiuto e all’abbandono, ma anche adeguata comprensione di sé e degli altri, con una buona gestione delle relazioni e delle capacità cognitive». Escluse gravi patologie psichiatriche: «Non emergono disturbi psicotici né perdita del contatto con la realtà. Al massimo si può ipotizzare un disturbo disforico, una forma di depressione arrabbiata», ha precisato il perito. Secondo Zizolfi, dunque, al 6 maggio l’imputato non presentava anomalie della personalità tali da giustificarne un comportamento privo di coscienza di realtà.
La Scientifica: la mazza da golf e i reperti biologici
Momento centrale dell’udienza la deposizione degli esperti della Polizia Scientifica, che hanno ricostruito con rigore la scena del crimine e illustrato i risultati delle analisi genetiche. Determinante la mazza da golf rinvenuta nell’abitazione: sull’impugnatura sono state isolate tracce biologiche di Marco Manfrinati in quantità «tre volte superiori» rispetto ad altri reperti, indizio che l’imputato sia entrato ripetutamente in contatto con l’oggetto. Solo una traccia di sangue, invece, è stata attribuita a Fabio Limido, localizzata sulla testa della mazza.
Quanto al coltello, altro reperto chiave, sono stati identificati profili misti: sulla lama contributi genetici riconducibili a Manfrinati e a Fabio Limido, mentre sull’impugnatura è emersa anche la presenza di una terza persona di sesso femminile. Gli specialisti hanno sottolineato come la lama possa essere stata parzialmente “ripulita” dallo sfregamento tra le due aggressioni, quella a Lavinia e quella successiva a Limido, con conseguente diluizione del sangue della donna.
La voce di Lucrezia Limido: «Mio padre era stremato»
In chiusura, un passaggio particolarmente intenso sul piano umano: la testimonianza di Lucrezia Limido, sorella di Lavinia e figlia della vittima. La giovane ha raccontato di non vivere più a Varese, dopo essersi trasferita a Verona per sfuggire al clima di tensione familiare generato dalla presenza di Manfrinati. «Ho visto la mia famiglia molto stanca e mio padre invecchiato malissimo» ha dichiarato, aggiungendo che papà «si era chiuso da tanto tempo» anche a causa delle continue precauzioni da adottare. Lucrezia ha inoltre riferito di mail minatorie inviate da Manfrinati al padre attraverso la casella di posta dell’azienda Ecogeo, nonché di minacce dirette ricevute in casa, prima della nascita del nipote.
Il processo in corte d’assise continuerà il prossimo 10 ottobre, quando verranno ascoltate le testimonianze dei testi chiamati dalla parte civile.