Barbara Pozzi, pendolare di Busto Arsizio, racconta la sua giornata di ieri. Una lettera che ha pubblicato sulla pagina Facebook del Comitato pendolari Trenord Busto e che ha inviato anche a noi.
Parcheggio la mia auto e l’aria pungente del mattino mi schiaffeggia le guance, ricordandomi che la sfida implacabile di ogni giorno deve iniziare, inesorabile, come ogni giorno.
Mi affretto a passo deciso, sono in anticipo di qualche minuto, minuti preziosi, densi di significato per un pendolare con la mia esperienza. Il cervello, in quei pochi passi che mi separano dal mio destino, inizia a fantasticare e a calcolare. Se ci fosse qualche problema con il 6.03 ho il lusso del 5.53, con un cambio a Bovisa cadrei in piedi, contenendo danni maggiori. Questo lusso mi fa sentire potente e sicura di me, ma non so ancora che il destino, anche oggi, ha in serbo per me qualcos’altro.
Entro in stazione a Busto Arsizio, la porta cigola ed è guasta e si apre appena, ma come un gatto mi plasmo per riuscire a entrare. È come se la forza della giustizia mi respingesse, quasi a impedire in ogni modo che anche oggi io varchi quella soglia. Noto di sfuggita la recinzione dei lavori in corso che impedisce l’accesso all’ascensore del binario 3-4, ma lo sguardo cerca di di posarsi sulla scala mobile: già penso al ritorno e a calcolare su quale vagone salire: se come ieri la scala mobile fosse ancora bloccata, l’ascensore non sarebbe fruibile ed essere in testa al treno vorrebbe dire tornare indietro con davanti tutto il treno per arrivare alle scale... Non riesco a vedere, ma non mi preoccupo più di tanto. Mi preoccupa più il tabellone. Al momento, dopo giorni da incubo, il tabellone portatore di sventura recita solo 4 minuti di ritardo sul treno per Centrale, quello che doveva essere il mio piano B.
Penso in fretta tra me che va tutto bene. Sono le 5.53, decido come ogni giorno di attendere le 5.57 prima di scendere al binario. L’esperienza di due decenni mi ha insegnato che è meglio essere sicuri che il treno che prenderò sia effettivamente partito da Malpensa. Perché al comparire di un ritardo, c'è la possibilità che esso aumenti di minuto in minuto e che porti a una cancellazione, con le conseguenze catastrofiche di cui sono stata ormai fedele testimone negli anni, e che spesso mi hanno alla fine costretta a riprendere la mia fidata auto, sfidando la giungla dell’A8 che a quell’ora inizia a diventare terra di nessuno.
Sono le 5.57, il Centrale arriva e io, ingenua e fiduciosa decido di scendere agli inferi.
L’odore acre e la massa d’aria che ulula non mi spaventano più: mi sento forte perché ormai il mio Cadorna è partito da Malpensa e non ci sono fermate intermedie. Ce la posso fare, e cerco di convincermi.
Ma i miei passi diventano meno sicuri una volta al binario 2. Il Centrale non si muove.
Ho un tuffo al cuore, nonostante tutto mi porto in testa al binario, come al solito. Mi scorrono nella testa immagini, la mia giornata, tutto quello che devo fare, il freddo, poi il caldo per il passo affrettato. La luce verde, la luce rossa. E poi ancora verde. Mi riprendo, e realizzo che il verde e’ il segnale del semaforo. Verde. Eppur non si muove.
Vedo il controllore. Impreca. Si affaccia. Torna a bordo. Luce rossa. Che ritorna verde. Il tempo scorre inesorabile, la gente inizia a scendere dal treno. A salire, a scendere. È’ un turbinio di parole, di pensieri. Il tempo scorre.
Il controllore è sgomento. Tutto si spegne. È buio. Capisco che stanno tentando una manovra disperata: la rianimazione, il reset del treno. Linea piatta, mi immagino il macchinista al telefono che annuncia l’ora del decesso.
Ma il controllore non si arrende, grida, “riprova!”. E via un’altra carica. C’e’ vita, forse.
Nel frattempo un annuncio: mi si gela il sangue. Altre persone di fianco hanno lo stesso pensiero e il tempo sembra cristallizzarsi.
Il sollievo, il Cadorna non è cancellato, hanno annunciato solo un cambio binario.
Pendolari, compagni di viaggio che gioiscono. Mancano solo gli abbracci, ma io sono preoccupata dell’altro treno, che loro stanno ingenuamente sottovalutando. È ancora li. Agonizzante. La mia preoccupazione non è il treno, ormai. Ma la caparbietà e la disperazione del capotreno. So che questa caparbietà porterà guai.
Il Cadorna arriva, tra l’acclamazione della gente. E mentre sta per arrivare succede il dramma inaspettato: il Centrale riparte. La rianimazione ha ridato quel filo di vita sufficiente a farlo ripartire un secondo prima di noi.
La gente gioisce salendo sul Cadorna, ma io no. I sorrisi svaniscono in fretta. Il Cadorna non parte. Anzi parte, ma si ferma nel tunnel di Castellanza. Carpisco qualche parola della conversazione del macchinista e del capo treno: “siamo qui tranquilli. Facci sapere” e il controllore “ma non riescono a farci passare?”. “No”. La risposta laconica e rassegnata spazza via gli ultimi residui di speranza che avevo.
Siamo fermi. Un silenzio glaciale avvolge la carrozza. Non sentiamo freddo, non sentiamo nulla. Il silenzio è interrotto solo da qualche maledizione che mi pare di percepire sommessa. Non serve a nulla, penso tra me e me.
Il capotreno in un atto di coraggio, cerca di fare un annuncio. In testa al treno non si sente, l’altoparlante è guasto, quindi parte un solidale telefono senza fili dal fondo della carrozza e la notizia corre veloce di bocca in bocca, sino a giungere a me: ci precede un treno guasto, e il nostro treno avrà un ritardo di circa 10 minuti, o forse 15. Noto che sapientemente non usa la parola “indefinito”. Ci sa fare, penso tra me e me.
Il treno riparte, arriva a Castellanza e si ferma nuovamente. Lo spettro delle fermate aggiuntive incombe. Tuttavia le porte non si aprono. Il treno riparte, e la corsa della speranza prosegue. Si ferma poco prima di Saronno, in quella che pare una pausa di riflessione. I miei compagni di sventura iniziano a imprecare meno sommessamente, altri passeggeri non capiscono cosa sta succedendo.
Arriviamo a fatica a Saronno, alcuni passeggeri con valigie pensano di essere arrivati a Milano, non c’è nessun annuncio. Il treno riparte, il ritardo aumenta. A singhiozzo si prosegue in una via crucis fuori stagione.
Penso alla mia auto parcheggiata. Penso a ieri, e a alla immensa fortuna che ho avuto per una giornata senza cancellazioni e con ritardi abbastanza contenuti. Penso ai 116Euro che guadagno con tanta fatica e che ho pagato fedelmente come ogni mese. Penso alla vita e penso che se sommassi tutte le ore e ore perse per ritardi e cancellazione dei treni di questi ultimi 20 anni, forse... No, decido che è meglio non pensarci.
I miei pensieri vengono interrotti perché il treno riparte. Poco prima di Bovisa però una nuova agonia... la rabbia lascia ormai spazio alla rassegnazione, e i volti stanchi dei viaggiatori sono sconfortanti: il giorno sta ancora nascendo, ma sotto una cattiva stella. Io non voglio che mi segni la giornata, caparbia riprendo il mio libro e cerco di fuggire per qualche minuto da questo mondo... Ma non si può fuggire per sempre, e i sussulti del treno mi riportano alla realtà.
Da Bovisa sprazzi di vita animano l’andatura del treno, quasi sembra si sia liberato di un fardello... Cerca di recuperare in un ultimo sforzo generoso, ma è tardi ormai, Cadorna fa capolino e il ritardo anche oggi è di più di 20 minuti. In prossimità del binario 1 il treno torna ad essere vecchio e stanco, ha perso la sua sfida, e abbacchiato si ferma aprendo tristemente le porte. “Siamo a Cadorna, si prega di scendere dal treno”.
E la gente, rassegnata e stanca, pensa già a cosa li attenderà tra qualche ora al ritorno.
PS: Questa è ormai la normalità, e oggi non è nemmeno tanto male in fondo.