C’è una cosa che ho imparato, in questi anni passati a vivere - e faticare, e gioire, e dormire, e mangiare - dentro al gruppo: questa, è una famiglia. Ah, già: le frasi fatte. Le parole abusate. Eppure fidatevi, fidatevi che è davvero così. Una famiglia. Perché quello del ciclismo è un mondo particolare e balordo, chiuso e piccolo, dove si guarda con diffidenza l’ultimo arrivato ma poi quando si capisce che ci si può fidare di lui, per lui si va nel fuoco. Una famiglia: si sta insieme, si condivide la lontananza da casa, si fa squadra, si piange quando qualcosa di terribile capita a uno di noi.
Davide Rebellin era una presenza discreta, ma costante. Quando sapevi che era in corsa, andavi a cercarlo con l’occhio: forse avevamo tutti bisogno di un testimone che ci legasse a un ciclismo che non c’è più, forse avevamo bisogno di un po’ di nostalgia pronta all’uso. O semplicemente, ci piaceva farci contagiare almeno un po’ dalla sua passione. La passione che l’ha fatto restare qui, in gruppo e con un numero sulla schiena, fino a cinquant’anni: ogni tanto si scherzava sul suo voler combattere a tutti i costi contro gli anni che passano, ma alla fine lo ammiravamo tutti perché Davide fino all’ultimo è stato capace di ricordare e ricordarci il suo talento con qualche zampata delle sue.
Davide Rebellin è morto schiacciato da un camion mentre si stava allenando vicino a casa. Come Michele Scarponi, come tanti, come troppi. Morti sul lavoro? No. Morti sulla passione. Quella passione che ti fa mandar giù le gambe che bruciano, il maledetto petto di pollo da mangiare tutte le sere e gli spaghetti a colazione, i mesi lontani da casa, le camere d’albergo piccole e strette, la fatica bestiale che scendi dalla bici e vai a vomitare, le ore in sella sotto l’acqua e sotto la neve e sotto il sole, una vita a fare il gregario senza mai provare la gioia di una vittoria, i giudizi degli ignoranti e i sospetti degli stupidi.
È morto sulla passione, Davide. Una croce in più a bordo strada, e quando ci saremo asciugati gli occhi ci resterà la rabbia per una strage senza fine figlia di strade sempre troppo strette e troppo trafficate, e di chi in un ciclista per strada vede solo un ostacolo davanti alla sua fretta di arrivare chissà dove a fare chissà cosa.
Le morti sono tutte ingiuste. Poi ci sono le morti che fanno piangere, quelle che fanno arrabbiare, quelle che fanno pensare, quelle che fanno schifo. E quelle che fanno tutte queste cose insieme, lasciandoti dentro solo un vuoto grande.
Ciao Davide. Se puoi, continua a pedalare.