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Busto Arsizio | 13 febbraio 2021, 08:54

La Comunità Marco Riva, il dono di don Isidoro. «Un pioniere della lotta alla tossicodipendenza»

Gianfranco Zilioli, attuale presidente della comunità, è cresciuto con “don Lolo”, che ha anche celebrato le sue nozze. «Don Isidoro aveva compreso il dramma della droga in anticipo di vent’anni rispetto a buona parte della società. È stato un esempio, donava tutto e si donava agli altri»

La Comunità Marco Riva, il dono di don Isidoro. «Un pioniere della lotta alla tossicodipendenza»

Ci sono le parole, gli aneddoti, i ricordi. E poi c’è la testimonianza – viva, concreta, tangibile – dell’opera di don Isidoro Meschi, morto il 14 febbraio di trent’anni fa (leggi qui).
La Comunità Marco Riva, voluta da “don Lolo” per strappare i ragazzi dalla droga, ne raccoglie ancora oggi, quotidianamente, il testimone.
L’attuale presidente della comunità, Gianfranco Zilioli, è cresciuto con il sacerdote. Don Isidoro è stato suo insegnate alle scuole medie Bossi, un riferimento all’oratorio San Luigi (negli anni in cui gli oratori brulicavano di gioventù), nonché il prete che ha celebrato le sue nozze. «Un grandissimo uomo, sempre attento a tutti», ricorda.

Un pioniere della lotta alla droga

All’inizio degli anni Ottanta anche a Busto Arsizio il problema della droga esplose in maniera dirompente. «Diversi miei conoscenti avevano problemi con le sostanze, altri ne erano morti – racconta Zilioli –. Don Isidoro ha capito subito la gravità della situazione. Insieme ad altri volenterosi, come Remo Brazzelli e Antonio Marchesi, nel 1982 diede vita a un centro d’ascolto per i ragazzi e le loro famiglie. Poi, nell’’85, grazie all’aiuto di alcuni benefattori fece ristrutturare una cascina in via Vesuvio che due anni dopo venne inaugurata come comunità di recupero per tossicodipendenti Marco Riva».

La strada era tutta da inventare: «Fu qualcosa di pioneristico – spiega l’attuale presidente –. In quegli anni nel varesotto e nel milanese c’erano pochissime realtà di questo tipo. Con gli anni la comunità si è strutturata e oggi può ospitare 14 persone assistite da sette dipendenti».

Un rapporto franco con i ragazzi

«Il progetto educativo di don Isidoro, il suo testamento spirituale, corre su due binari – rivela Zilioli –. Da un lato l’accoglienza e il recupero della persona, grazie all’impegno di psicologi e assistenti sociali; dall’altro il lavoro, indispensabile per inserirsi nella società. Anche gli impieghi più semplici, in cucina, nella nostra piccola officina meccanica, negli uffici o nelle cantine da sgomberare, danno alle persone delle piccole competenze o, quantomeno, un po’ di disciplina».

Ma che rapporto aveva don Isidoro con gli ospiti della comunità? «Un rapporto molto franco. Non ha mai prevaricato o costretto nessuno a fare nulla. Se la scelta di disintossicarsi non arriva dai ragazzi, allora è inutile, diceva. La comunità doveva essere un passaggio per diventare indipendenti».

E negli anni sono stati davvero tantissimi i ragazzi a tentare di compiere questo percorso. Alcuni con successo, al punto di tornare a dare una mano, col desiderio di restituire quello che avevano ricevuto.

Altri, purtroppo, non sono riusciti a sconfiggere la dipendenza. «Chi si è impegnato, spesso ha trovato un vero beneficio. Poco prima di Natale ho incontrato per caso una persona che da giovane era stata in comunità. Era felice, mi ha presentato la moglie e i bambini. Queste cose danno un senso al nostro lavoro. Non tutti però hanno la forza di arrivare in fondo al percorso. Il richiamo della sostanza è molto forte, non è un braccio rotto che si risolve con un gesso. Don Isidoro aveva letto i tempi in anticipo di vent’anni rispetto a buona parte della società. Parliamo di un problema enorme che devasta le famiglie, azzera le relazioni umane».

Un problema presente anche oggi: «La tossicodipendenza è in parte meno visibile – afferma Zilioli –. Una volta si diceva che era un problema del “sottoproletariato urbano”. Oggi, invece, a soffrirne sono persone che lavorano, anche professionisti affermati».

Un prete sempre attento agli altri, fino all’ultimo

«Un esempio». Così Zilioli definisce don Lolo. «All’oratorio si faceva notare – dice –. Gli piaceva giocare a pallone con i ragazzi. Ricordo che durante una vacanza lui portava lo zaino più pesante, perché non voleva chiedere agli altri sforzi superiori ai suoi. Donava tutto quello che aveva. Indossava sempre abiti consumati, perché tutti quelli che gli venivano regalati finivano sempre ai bisognosi. Una volta gli comprarono una bellissima bicicletta da corsa, e lui donò anche quella, preferendo spostarsi con una vecchia bici. Era attento a tutti».

Davvero a tutti. «La sera in cui morì era in programma una riunione. Il ragazzo che l’avrebbe ucciso gli chiese un incontro e, nonostante gli impegni, il sacerdote trovò un momento per lui. Era un ragazzo con tanti problemi, don Isidoro ha cercato di stargli vicino». E lo ha fatto fino all’ultimo.

Riccardo Canetta

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