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Calcio | 20 novembre 2024, 20:24

L'INTERVISTA. Cusatis e l'emozione di sfidare i suoi tigrotti: «Pentito di aver lasciato quella Pro Patria. Ma non ho rimpianti. Sogni? Uno»

L'allenatore dell'Alcione ricorda quella memorabile stagione biancoblù e si prepara alla sfida di domenica. I valori del campo, la lezione di Sannino in Inghilterra, il pilastro della famiglia e la gratitudine

Cusatis - dalla pagina Facebook dell'Alcione

Cusatis - dalla pagina Facebook dell'Alcione

Domenica prossima si gioca (ore 15) Alcione-Pro Patria e, per l'allenatore dei padroni di casa Giovanni Cusatis, è la seconda volta che affronta la sua ex squadra. La prima fu nel campionato 2012/2013 e sedeva sulla panchina dell'Alessandria, un'esperienza non fortunata.

Pentito mister di aver lasciato la Pro Patria nel 2012 dopo un solo anno?

“Sì”.

Perché poi ti hanno esonerato?

“Assolutamente no. Perché non devi mai lasciare una società dove hai potuto lavorare bene inseguendo altre cose. E' stata una lezione che ho imparato e che mi è servita anche negli anni a venire”.

Anche all'Alcione dove stai andando alla grande per essere una matricola?

“Ho avuto delle offerte, ma le ho sempre rifiutate perché qui mi trovo bene in una società che che ti lascia lavorare e questo non vuol dire che non debba ottenere i risultati. La dirigenza aveva programmato la conquista della serie C in tre anni e ce l'abbiamo fatta. Ci sono strutture, un bel settore giovanile e soprattutto equilibrio”.

Dentro o fuori dal campo?

“In primis in società. Ad inizio stagione dopo una vittoria ed un pareggio, abbiamo perso tre partite, abbiamo vinto le sei successive, abbiamo di nuovo perso tre gare e domenica abbiamo vinto a Crema. Non è successo nulla quando si andava bene e si è mantenuta la calma quando le cose non stavano girando. Le tre cose che ho chiesto ai ragazzi sono entusiasmo, equilibrio e perseveranza nel migliorare”.

Dove volete arrivare?

“Giocare a calcio sempre come squadra e noi abbiamo in rosa dodici o tredici che erano in serie D, qualche giocatore di categoria oltre a quattro o cinque del settore giovanile”.

Risultatista o giochista?

“Mi sembrano stupidaggini. Si può giocare in diversi modi l'importante che sia di squadra. In serie D era l'Alcione che comandava il gioco, quest'anno ai miei giocatori ho detto che avremmo anche dovuto subire e soffrire come è successo a Crema. Ma si ottengono i risultati anche facendo bene la fase difensiva”.

All'Alcione sei tranquillo, ma a Busto ne perdi una e cominciano i processi.

“Le due piazze non si possono paragonare. Succede alla Pro e ti dicono che non sei all'altezza. Però anche a Busto ho trovato una dirigenza che aveva equilibrio e capiva di calcio”.

Ti riferisci alla penalità di meno tredici punti?

“Sia da parte di Raffaele (Ferrara direttore sportivo ndr) che di Pietro (Vavassori presidente ndr) trasmisero a tutti tranquillità pur sapendo delle difficoltà che avevamo di fronte. Facemmo squadra e riconosco che ci chiudemmo a riccio, ma era indispensabile essere compatti perché solo in quel modo saremmo riusciti a superare le difficoltà”.

E chi si sentì escluso non mancò di attaccarvi sui media.

“L'avevamo messo in conto, i fatti però ci diedero ragione”.

Senza quella penalizzazione ed il biscotto fra Entella e Rimini all'ultima giornata la Pro sarebbe andata ai playoff oltre ad aver fatto più punti di tutte sul campo.

“Il campo ha detto questo”.

Ti mancò un po' il respiro quando Vavassori e Ferrara ti chiamarono a dirigere la prima squadra dal settore giovanile?

“Accettai con entusiasmo ed anche con qualche timore in considerazione della prevista penalizzazione, però conoscevo la dirigenza che ringrazierò per tutta la vita per avermi dato quella possibilità e di avermi fatto conoscere”.

Sono passati dodici anni, è cambiata la dirigenza, affrontare la Pro Patria ti provoca delle sensazioni particolari?

“Certamente e sarà sempre così. Lì sono stato tre anni fra allenatore del settore giovanile, allenatore in seconda di Manari e allenatore della prima squadra. E' cominciata lì la mia seconda vita nel calcio”.

Arrivato fin qui era quello che volevi?

“Si. Ho avuto la fortuna di allenare i ragazzi ed è fondamentale fare questa esperienza nella carriera di allenatore. Non avendo l'ansia del risultato, ti permette di sperimentare, provare soluzioni, affinarti dal punto di vista psicologico perché il ragazzo vive una stagione particolare della sua vita che lo porta ad alti e bassi”.

Come secondo non è però così stressante.

“Devi essere sempre preparato. Quando il mister ti chiede un qualcosa, un consiglio, tu devi essere immediato nella risposta e questo ti costringe ad essere molto concentrato durante la settimana ed in partita”.

Da primo però è un'altra cosa?

“Devi sapere che stai allenando una persona composta per il settanta per cento da emotività. Se pensi di allenare solo il giocatore, cambia mestiere. Se mi accorgo in allenamento che un mio giocatore non rende cerco di capirne i motivi ed assieme di trovare una soluzione. Meglio che stia in panchina piuttosto che in campo con la testa altrove”.

Hai avuto tanti mister qualcuno in particolare?

“Due. Gigi Del Neri e Adriano Cadregari. Mi hanno dato tanto. A Cadregari sono affezionato. Un personaggio. Aveva un concetto di calcio solo offensivo, sbarazzino; la fase di non possesso esisteva poco, diciamo così. L' ho avuto a Siracusa. Come difensore difendevo sempre di rincorsa, per lui bisognava sempre andare  all'attacco. Difendendo in quel modo sia io che gli altri di difesa ci siamo beccati tanti di quei gialli e rossi. Però ti dava tranquillità”.

E dall'esperienza in Inghilterra con lo Watford?

“La capacità di capire che dopo una partita non esistono drammi o euforia. Tutto nasce e muore lì. Ricordo che dopo una sconfitta sul pullman i giocatori cantavano, Sannino (allenatore ndr) li avrebbe voluti fulminare. Andai a parlare con loro e mi dissero che loro sul campo avevano dato tutto e se avevano perso era perché gli avversari erano stati più forti. Ci avrebbero provato la prossima volta. Questione di cultura. In Italia basta un pareggio per scatenare drammi”.

Hai girovagato come giocatore e come allenatore non era facile affermarsi: quanto ti ha supportato la famiglia?

“In tutto. Con mia moglie siamo assieme da trentasette anni fra fidanzamento e matrimonio. Quando giocavo sono stato anche lontano e lei ha cresciuto i figli. Quando sei agli inizi come allenatore e, nei settori giovanili il compenso è povero, se non ha una moglie che ti comprende non ce la fai. Devo raccontare un aneddoto”.

Prego.

“A Savona al sabato con la Pro Patria viene da me Serafini e mi dice che sua moglie è stata ricoverata in ospedale per partorire. Mi chiede il permesso di lasciare il ritiro. Dopo un consulto con la dirigenza gli dico: Matteo corri a Brescia perché una partita la si può non giocare, ma non si può perdere la nascita di un figlio. Come andò a finire? Alla domenica Matteo era già in campo dopo il viaggio di notte e l'emozione per il figlio. Fece due gol che ci fecero vincere. Se gli avessi detto di no avrei avuto in campo un giocatore stralunato”.

Rimpianti?

“No”

Sogni?

“A cinquantasette anni, stare bene nel mondo del calcio come adesso”.

Giovanni Toia


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