Glielo dico. Anche se a volte mi fa tenerezza. Per la sua ingenuità. Per quell'attaccamento alle Tradizioni che non ammette deroghe. Giusepèn è così: semplice, intuitivo, vero ……..antico; proprio così, antico che non vuole dire …. vecchio, a dispetto dell'età.
Passato Ferragosto, coi ricordi dell'epoca; con quel caldo che ti "arrostiva" la pelle, il sudore, i covoni di fieno, le zolle "ardenti" della campagna, la mietitura, la trebbiatura, il ristoro "a pusi" (al riparo) di un platano o d'una "topìa d'uga" (filare d'uva), la "sumèea bona 'na maenda d'anguria" (apprezzabile una merenda d'anguria) "mèi s'à lèa giasciàa" (meglio ghiacciata).
Sulle briciole (i fregùi), ancor oggi, quando si pranza o si cena, il pane si spezza sopra il piatto. Per non sperdere "i fregùi" sulla tovaglia. Era semplicemente rispetto. Non solo per la "masèa" (la massaia - la mamma) che dopo doveva accudire alla tavolata e riporre nel cassetto le vettovaglie, ma rispetto per quegli spizzichi di pane che non dovevano andare perdute. Si sa che a sbattere la tovaglia, si produceva cibo per passeri che in un battibaleno "ripulivano" (i neteàn) il terreno; ma il senso del pudore nello spezzare il pane sopra il piatto con intingoli o arrosti era come l'agire del … prete quando sull'altare prepara l'Ostia per la Comunione.
La sacralità del gesto era atavica. Somigliava a un insegnamento del nulla è perduto e che tutto aveva un senso …. quel senso compiuto che in "cà dì sciui" (nelle abitazioni signorili) non si usava, ma che nelle famiglie semplici era un rito a cui non si poteva fare a meno.
Di conseguenza, si arrivava al "pàn possu" (pane raffermo) che non si buttava …. per nessun motivo. O lo si consumava nel "pàn cottu" (il pancotto) che altro non sera, se non il pane dentro il minestrone, accompagnato "par fàl sumeò pissè bon" (farlo somigliare più appetitoso) da un uovo, il cui guscio era spaccato al momento e non si dividevano albume e tuorlo, ma tutto si rimestava per il …. pancotto. Tuttavia, quel "pane raffermo" lo si poteva abbrustolire, come si usa oggi per le "bruschette" o le "piadine rusteghe", bruciacchiate ma non bruciate, per offrire al "pàn possu" un …. decoroso epilogo.
Se (infine) restava ancora il pane raffermo, lo si spappolava dentro un gustoso brodo di carne, per offrire al cane una leccornia "dent'ul baslotu" (dentro la ciotola) che Dick (il mio cane) divorava in meno che non si dica. Giusepèn quasi mi "aspetta al varco" per ribadire che "anca ti, al dì dincoeu" (al giorno d'oggi), rispetti il pane, sbocconcellandolo con rispetto e prima del pane fresco, "t'è finissi chèl possu" (consumi quello raffermo). Abitudini? Insegnamenti che non muoiono? Di certo, rispetto al pane che un tempo era preziosissimo e che ha subito tasse e rincari (Quintino Sella) da lasciare sbigottiti, prima di tutti, le persone indigenti. So, dove Giusepèn vuole andare a parare con questi esempi spiccioli. Lo chiarisce in italiano e non in Dialetto Bustocco da strada, per non metterci troppo tempo alla traduzione. "Dove c'era l'abbondanza, non si discuteva di questi usi e non si capivano per intero, i bisogni di chi …. aveva bisogno.
E, prima di concludere il pranzo "merluzzu cunt'i scigùl" (merluzzo con cipolle), ecco la "scarpetta" tipica dell'italiano verace: pezzo di pane con mollica, "par ruspò" (pur raccogliere) quel che resta del sugo e "preparare" il piatto lindo e pulito quasi da "metì via, netu dà lavà non" (mettere in dispensa, pulito, senza essere lavato), ma sotto gli occhi di mamma o "dàa spusa" (dalla moglie) si procedeva al lavaggio delle stoviglie, contenta e gratificata per avere cucinato benissimo.
Giusepèn "t'al disu cunt'ul coei ……. Nocino" (te lo dico col cuore …. Nocino) e dentro i nostri sorrisi c'è un'intesa capillare per il nostro Dialetto Bustocco da strada. Noi ci siamo, Giusepèn!