Stavolta, Giusepèn va dritto al significato del concetto: "marmuò" vale a dire (mormorare) che è un parlar male, denigrare, dire ciò che altri non devono sentire, ma devono solo ascoltare: le dicerie. Che non è un buon segno, ma è addirittura un fattore negativo sia per chi dice sia per chi ascolta.
"In i petonighi chi ga marmua" (sono le comari che sparlano) e dentro il termine "comare" per Giusepèn c'è dentro quel che di deteriore rappresenta. Gli chiedo allora, il motivo del "marmuò" e Giusepèn (come suo solito) è "netu e scietu" (preciso e schietto): "Sunt'andei cunt'àa Maria a fo benedì ul pan da San Biasu e apena foa dàa gesa ghea lì tri don a marmuò. U sentì pulidu chèl che disean e l'e non un bel sentì" (mi sono recato con mia figlia Maria in chiesa a far benedire il pane di San Biagio e appena fuori di chiesa c'erano tre donne a mormorare. Ho sentito bene quanto dicevano e non era un bel sentire). Capisco il disagio di Giusepèn nell'ascoltare le dicerie, ma ciò che conta per lui è la "falsità" con cui si accusa qualcuno o si parla male di una persona senza che la stessa possa difendersi. "Ciapa non chela lianda lì, t'a racumandu; sculta sempar i du campàn prima da eghi un giudizi" (non prendere quell'abitudine, ti raccomando; ascolta sempre le due campane -le due versioni- prima di avere un giudizio) e anche dentro quel "giudizio" non trarre conclusioni.
Un tempo, "ul marmuò" lo si usava nei cortili (i curti), ma pure sul "paschè dàa gesa" (il sagrato della chiesa), e nei "salotti buoni" o durante gli incontri furtivi, clandestini, fra persone che si frequentavano. Il "marmuò" somiglia molto al "parlar male" e quando qualcosa trapela, si arriva al litigio. Un vecchio detto recita "quando senti parlar male di altri, sappi che la stessa persona parlerà male di te" ed è per questo motivo che Giusepèn "mi mette on guardia" ben sapendo che personalmente, io ci sono passato "sotto quel giogo". Giusepèn, insiste "lu fan par invidia, par cunvenienza, par fassi bèi cunt'i oltar, ma in fin di conti, chi ga parla malamenti i scioppàn" (lo fanno per invidia, per convenienza, per farsi belli agli occhi degli altri, ma alla resa dei conti, chi parla con civetteria, scoppia, fallisce) tanto che mia madre diceva "chi mangiàn dul so sin a candu in in bona" (mangino di proprio -invidia- sino a quanto ne possiedono) e Giusepèn annuisce. Sa che ho ben compreso la lezione e sa che tra noi, c'è mai stato "ul marmuò", ma semplicemente uno scambio di impressioni che porta a un giudizio, ma mai a disdoro di qualcuno.
Maria annuisce dopo avere ascoltato tutto …. "a chèla lì, ga scapa naguta" (a Maria, sfugge nulla) e il "chèla lì" (quella - rivolto a lei) è confidenziale e per nulla al mondo, offensivo. Mi sembra giusto dire a Giusepèn che "na santa dona, l'à ma dei ul nocino" (una cara amica mi ha fornito di una bottiglia di nocino) e che quel "nettare" è da bere insieme; rigorosamente insieme, proprio per un motivo semplice: lei vuol bene a entrambi "al so che ti, te ghe parli da men" (so che tu le parli di me) e Giusepèn sa che le dico esclusivamente la verità.