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Storie | 25 aprile 2022, 10:32

Enrico Vanzini, l’ultimo italiano del sonderkommando, emoziona la platea di Fagnano

Con la sua testimonianza, l’ultimo italiano del sonderkommando ancora vivente, ricorda l’inferno dei campi di concentramento. Stasera al Castello Visconteo gli viene consegnata dal sindaco Baroffio la cittadinanza onoraria

Enrico Vanzini a Fagnano

Enrico Vanzini a Fagnano

«Spesso sogno che mentre scaricavo un morto dentro un forno, questo si svegliava e mi implorava di salvarlo». È solo una delle frasi che ieri sera hanno agghiacciato la platea che straripava nell’aula magna delle scuole Fermi di Fagnano. Perché tanti sono stati i passaggi con cui Enrico Vanzini ha raggelato il pubblico, attentissimo a non lasciarsi sfuggire un attimo della terribile esperienza vissuta a Ingolstadt, Buchenwald e Dachau dall’ultimo sonderkommando italiano sopravvissuto ai campi di concentramento. Lui, 100 anni, ha saputo intrattenere per oltre un’ora: il secolo che festeggerà il prossimo 18 novembre non gli ha impedito di ricordare le percosse, il mitra puntato alla schiena, i cadaveri che disseminavano il campo di Dachau. Quelle ferite non si possono rimarginare, restano «scolpite nel cuore di un uomo che ha saputo costruire un ponte tra le generazioni. Per non dimenticare», come ha ricordato Giacomo il giovane intervenuto al termine della serata.

Come è possibile dimenticare quel ragazzo morto tra le braccia di Enrico Vanzini, perché i detenuti alla notte nelle brande a castello di quattro piani, senza coperte, si stringevano per soffrire meno il freddo? Come è possibile dimenticare le venti frustate con nervi di bue intrecciati perché non ricordava il suo numero? Come è possibile dimenticare le lucertole offerte a pranzo e quel pane costato la vita a una donna che l’aveva donato a Vanzini? Lui, il numero 123343 che al ritorno pesava 29 kg non ha potuto mangiarlo quel tozzo: significava mangiare un pezzo di cuore. Lui, cent’anni, non può dimenticare. Basta che osservi le mani deformate per il congelamento e le percosse, basta che senta ancora quel terribile rumore dei nervi umani che scricchiolavano tra le fiamme, basta che riprovi la sensazione di quella doccia gelata quando fuori nevicava con gli spruzzi che scaraventavano sul muro, che gli ritorna vivo l’inferno di Dachau. «I sette mesi passati lì – ricorda nella testimonianza finale (VIDEO) – sono trent’anni di vita».

Così ieri sera Enrico Vanzini ha ricordato la sua tragedia, iniziata da quando – non aveva ancora diciotto anni - per un’appendicite non era partito per la Russia, ma per la Grecia e dopo il proclama dell’8 settembre 1943 era stato arrestato. «Eravamo in sessanta su ogni vagone – ricorda – ammassati l’uno sull’altro. Si cercava acqua: ci hanno dato due borracce da dividere in sessanta. Non si respirava, venti giorni per arrivare a Monaco, poi a Ingolstadt dove lavoravo come saldatore elettrico in una fabbrica per telai di carri armati. Se ci fosse stata una scoria che saltava, mi sarebbe arrivata dritta una stangata sulla schiena». Poi ha raccontato altri particolari agghiaccianti come quando hanno rischiato la fucilazione. «Ecco il plotone di esecuzione. C’erano dieci persone con il mitra e mi hanno chiesto se volessi le bende, ma io ho rifiutato: volevo godermi il sole. Poi siamo stati salvati dall’arrivo di una gip tedesca dove il capo ha comandato ai fucilieri di fare riposo. Sempre con il mitra alla schiena ci hanno condotto a Dachau. Qui ci hanno spruzzato una sostanza bianca che ustionava la pelle e ci hanno fatto fare una doccia gelata con tubi che sembravano le pompe dei vigili del fuoco con uno spruzzo tale da cui non riuscivo a scappare».

E poi i morti: «Ogni mattina si trovavano almeno sei morti in ogni baracca: persone che non reggevano fame, freddo, sofferenze – prosegue – Alla domenica, quando non si lavorava, si toglievano i morti dalle baracche e si scaricavano fuori dai forni come dei pezzi di legna da ardere. Poi mi sono ammalato. Avevo una malattia del sangue, ma mi avevano consigliato di evitare l’infermeria perché prima o poi mi avrebbero fatto un’iniezione che mi faceva finire ai forni. Piangevo. Piangevo come un ragazzino. Cercavo la mamma».

Insomma una testimonianza che è andata dritta al cuore del pubblico. A fare gli onori di casa, ieri, il sindaco Marco Baroffio che tra l’altro ha consegnato due documenti preziosi del suo concittadino (VIDEO): l’atto di nascita e di matrimonio. Accanto la Giunta al completo: la vicesindaco Simona Michelon, l’assessore ai servizi sociali Dario Moretti, ai lavori pubblici Simona Mesenzani, alla cultura Beppe Palomba. E anche il presidente Anpi Floriano Pigni che gli ha consegnato la tessera ad honorem dell’Anpi, ricordando anche le quattro pietre d’inciampo collocate a ricordo dei deportati fagnanesi.

Questa sera alle 18 al castello visconteo sarà consegnata a Vanzini la cittadinanza onoraria. A quell’illustre cittadino che ha fatto di tutto per non mancare nella sua Fagnano (VIDEO).

Laura Vignati

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