Ogni volta che ricorda è come se ricevesse un pugno allo stomaco. Ma Vincenzo Zingarelli non riesce a farne a meno: col pensiero torna alla sera del fattaccio, quella in cui finì, suo malgrado, nella storia della ragazzina vittima di violenza, avvenuta in un'area semiabbandonata vicino alla stazione delle Nord, a due passi da casa sua, nel quartiere in cui vive da sempre (vedi QUI, nei giorni scorsi la richiesta di condanna a sei anni per l'imputato, vedi QUI). «A dirla tutta - precisa - come ho raccontato a molti giornalisti, io non sono stato testimone dell’aggressione vera e propria. Ho visto una figura tremante, accovacciata. La vittima che piangeva. E un tizio che se la prendeva con i Vigili. Già questo sarebbe abbastanza per rimuginare spesso su quella sera. Ma c’è di più: anche io ho subito una violenza sessuale, quando ero bambino. Ho sofferto allora e ho sofferto il doppio quando ho capito che cosa era successo alla ragazza. Non abbiate paura, dico alle vittime. Parlate con le persone di cui vi fidate. Io, ai tempi, sono rimasto zitto, soprattutto con mia mamma. Un errore».
Oggi Vincenzo ha 55 anni, quando è caduto nell’agguato faceva la quinta elementare alle Bertacchi. A distanza di tanto tempo è impossibile trovare riscontri puntuali alla sua storia. Però il racconto è circostanziato, nella sequenza dei fatti e nella ricostruzione dei luoghi. Credibile.
«C’era il circo, a Busto. All’epoca si accampava dalle parti di via Ferrer. Io ero un bambino che stava spesso da solo, un po’ per carattere e un po’ per gli impegni dei miei familiari, a partire dal lavoro di mia mamma. E mi piacevano gli animali, una vera e propria passione. Così, un pomeriggio, andai alle gabbie con uno scopo preciso: vedere i leoni. E li vidi. Ma incontrai anche un uomo. Non saprei dire l’età, era corpulento e aveva i capelli bianchi, non parlava un italiano perfetto. Mi disse che conosceva mio fratello e che mi avrebbe fatto vedere un leoncino, dentro una roulotte. Ci cascai. Appena entrammo, chiuse a chiave la porta».
La violenza fu pressoché immediata e brutale. Vincenzo, racconta, cercò di sottrarsi, si divincolò, provò a sgusciare via. Invano. Si trovò con un braccio rotto, venne perfino morsicato. «A un certo punto bussarono. L’uomo uscì brevemente chiudendo di nuovo a chiave, io ero stravolto. Sentii la voce dell'altra persona, parlava un italiano corretto. Capii che si discuteva di soldi. Tra quello e il fatto che, al suo ritorno, l’uomo mi disse che sarei partito, mi sono fatto l’idea che lo scopo fosse anche rapirmi. Finsi che l’idea di viaggiare con la carovana mi piacesse, cercai di essere convincente, feci delle domande. A un certo punto, quando mi sembrò che la situazione fosse più tranquilla, chiesi di uscire per andare al bagno. Accompagnato, aggiunsi. Appena la porta si aprì, scattai via, più veloce che potevo».
Incubo finito? Il racconto di Vincenzo prosegue: «Avevo paura che l’uomo mi stesse dietro, anche se era grosso, probabilmente lento. Si era fatto buio, arrivai alle montagnette. Il posto si riconosce anche oggi ma allora era diverso, più incolto e abbandonato. Ripresi fiato lì. E lo vidi, il tipo. Aveva preso un motorino o qualcosa del genere. Continuava a girare, faceva avanti e indietro, mi cercava. Alla fine ho provato a spostarmi. Mi sono sentito in salvo una volta arrivato vicino a qualche negozio conosciuto. Poi sono andato a casa».
A raccontare tutto? «No. Ero terrorizzato e mi sentivo in colpa. Per qualche ragione mi tormentava il fatto che quell’uomo aveva detto di essere amico di mio fratello. Impossibile. Ma avevo abboccato. A mia mamma dissi che mi ero fatto male al braccio scavalcando un muretto. Andammo al Pronto soccorso solo per quel dolore, venne fuori che era una frattura».
Poi? «Poi silenzi, più o meno lunghi. Ho raccontato a mia mamma quello che avevo vissuto non molti anni fa. Era sconvolta. Con gli amici e con mio papà, che pianse, mi sono aperto prima. Sono gay, ho un compagno da tanto tempo. Anche lui, quando ha saputo, ha sofferto per questo episodio. Ma allora la cosa rimase sottotraccia. A pattinaggio videro qualche segno, si insospettirono ma non ci furono particolari approfondimenti. Anche la mia maestra si accorse che qualcosa non andava. La scuola non era esattamente la mia passione ma ero diventato ancora più distratto, mi capitava di mettermi a piangere. Avevo paura degli spostamenti, del tragitto per tornare a casa, temevo di incontrare di nuovo quell’uomo».
E oggi? «Penso di essermi lasciato la cosa alle spalle, più o meno. Ho commesso i miei errori, li ho superati, ho fatto la mia vita. Adesso sto bene, ho una buona cerchia di amicizie. Però, lo ammetto, quando ho visto la scena dietro casa, nell’aprile scorso, e ho realizzato quello che era successo mi è crollato il mondo addosso. Ho davvero pensato che quella ragazzina, una persona normale (Vincenzo ha, per caso, incontrato la vittima, vedi QUI) abbia rischiato grosso. È stata picchiata, come è successo a me. Si è trovata le mani del suo assalitore al collo, si vedevano i segni... Tanti giornalisti, allora, mi hanno chiesto di raccontare quello di cui ero stato testimone. All’inizio non volevo, da certi punti di vista mi sento vulnerabile, un bersaglio facile. Poi ho deciso di parlare. E parecchio».
Perché? «Perché se succedono cose così gravi, così pesanti si deve sapere. Il silenzio è la scelta sbagliata. Da parte dei testimoni e da parte delle vittime. Bisogna avere il coraggio di denunciare, di cercare l’aiuto di persone fidate. Una vittima, se si trova in un ambiente sbagliato, deve trovare anche la forza di andarsene, di lasciarsi dietro quello che non va. Io oggi so che non mi devo nascondere».