Compie cinquant'anni, ma non conosce il tempo. Per il messaggio, per la sua forza narrativa. Certo, c'è anche il dialetto di mezzo, quel bustocco che sempre meno parlano, qualcuno in più capisce. Ma "I Milión daa Merica" è un'opera che sarebbe proprio un peccato perdere, non riportare cioè nella sua cornice naturale: il palcoscenico.
Perché è moderna, modernissima. Ci avrebbe salvato anche dal disastro Lehman Brothers e altre crisi finanziarie, a ben vedere. Scherziamo, ma mica tanto. Angelo Bottigelli, pittore e scrittore nato nel 1897 e scomparso nel 1989, cofondatore della Famiglia Bustocca, aveva saputo tracciare una farsa in due tempi irresistibile per i personaggi e la forza del dialogo, che è stata ripetutamente portata in scena. Luigi Giavini nella prefazione della recente raccolta di testi di Ginetto Grilli, "I giovani corrono, i vecchi sanno la strada", ricorda quando proprio Grilli fu chiamato a interpretare il protagonista principale. Strepitoso, ma con un problema, rammenta ancora: Ginetto è un cantastorie e ama improvvisare, per cui gli altri lo imploravano di lasciare invariata almeno l'ultima battuta per entrare a tempo debito.
Nel 2008 al Teatro Sociale Cajelli fu proposta la farsa, ma poi cancellata a ridosso della data: a quanto pare, non c'erano abbastanza prenotazioni. Poche settimane dopo, il sold out per i Legnanesi. Non per scomodare rivalità, è chiaro che la compagnia nata a Legnano, è diventata un brand di impatto nazionale. Peccato però che un'opera di casa nostra rischi di scivolare nel dimenticatoio.
Lo raccomandava il professor Nino Miglierina, nella prefazione del volume: «I Milión daa Merica non è destinato certo alle grandi platee, ma tutti i bustocchi dovrebbero farsi un dovere di accoglierlo, leggerlo e porgerlo fra i libri che un giorno verranno sacri».
Per coloro che hanno la fortuna di possedere questo libretto (stampato in 500 esemplari dalla Tipografia Arti Grafiche Bustesi), già iniziare a sfogliare è un piacere. Con la sua precisione, Angelo Bottigelli ci disegna anche il luogo dell'azione, la casa di Lisandar o Zibretta (i soprannomi sono tutto), ciabattino che ama però un po' troppo alzare il gomito, costantemente strigliato dalla moglie Lüzia o Ressiga, lavandaia. Siamo negli anni Trenta e la scena si apre con la mamma che sgrida la figlia Rusetta e non è meno severa con il fratello Togn, professione dichiarata "fannullone".
La vicenda prende una svolta inaspettata, quando irrompe un telegramma dal fratello di Lisandar, Carloeu, emigrato in America. Sudamerica per la precisione, perché parliamo di "Bonissai", Buenos Aires. Il familiare gli annuncia di aver spedito per aereo "dieci milioni, goditeli in famiglia". È l'inizio della fine. Si spende, si spande, si acquisiscono opportunisti amici e ancor più finti spasimanti.
Peccato che il fratello abbia fatto un piccolo scherzo innocente - così lo definirà poi - e alla famiglia a Busto arrivi ben altro (non sveliamo i dettagli), quando ormai i debiti sono pesanti. La morale, Carloeu la scrive in italiano: «Lavora, lavora e risparmia più che puoi, diventerai ricco, altrimenti sarei sempre un povero diavolo».
Della serie, occhio ai regali, occhio a spendere quando ancora non hai in mano nulla. Roba che ci avrebbe messo e ci metterebbe al riparo da molti guai.
Abbiamo compagnie brave e coraggiose: qualcuno se la sente di salvare questa deliziosa farsa, senza lasciarsi scoraggiare da una full immersion di dialetto?




