Ieri... oggi, è già domani - 09 novembre 2025, 06:20

“Màasi e guaì” - Ammalarsi e guarire

Prima o poi, un malore, un'indisposizione, un indolenzimento, qualcosa di precario alla salute, colpisce tutti...

“Màasi e guaì” - Ammalarsi e guarire

Prima o poi, un malore, un'indisposizione, un indolenzimento, qualcosa di precario alla salute, colpisce tutti. Giusepèn sottolinea il fatto che "a màasi, s'à fò'n sveltu, ma a guaì ga oei tempu" (ad ammalarsi ci si impiega poco, ma a guarire, ci vuole tempo) - la saggezza popolare, induce a una riflessione che si può ben constatare. Non la si teneva in considerazione, quando si era giovani, ma col trascorrere degli anni, volere o volare, giocoforza, la si deve accettare.

Ammalarsi non è solo un'indisposizione, ma è pure qualcosa di più oneroso - o malattie specifiche, oppure malattie consequenziali in base al tenore di vita o come ci si pone di fronte al tempo. Per andare sul tragico... se in pieno inverno esco in canottiera e se dovesse piovere, nemmeno mi riparo con un ombrello o un cappello, chiaro che una polmonite, me la dovrei aspettare.

Quindi, bene che vada, mi devo porre a letto e subire le angherie del medico, con tutte le medicine del caso. La costrizione, a non uscire da casa, mi sembra il minimo per combattere la malattia e per riprendere la funzionalità di sempre - Giusepèn, mette in risalto che, alla sua epoca, di medicine se ne contavano poche e in quantità limitata - per una polmonite, ad esempio, le nostre mamme si "davano alla polentina", quasi fosse una panacea per salvare i polmoni e per respirare meglio. Panno bianco ben caldo, con sopra un miscuglio di farina di lino, anch'essa ben calda o, calda da far paura - quindi si procedeva a impiastrare il petto dell'ammalato, pensando bene di farlo guarire, magari con una benda da far sembrare il malcapitato, una specie di mummia egizia.

Giusepèn azzarda un "t'e se ragordi candu a to mòma e a to zia Pepina, t'an vunciù'l stomagu da pulentina?" (ti ricordi quando tua mamma e tua zia Giuseppina ti hanno unto torace e stomaco con la polentina?) - ero semplicemente un bambino e ho dovuto subire il supplizio - visto che ero vivace e "disbriò" (reattivo), ho tentato di divincolarmi dalla presa della zia che, col le sue forti braccia mi abbracciava a rovescio, visto che lei era seduta sulla sedia, io seduto sopra di lei e la zia a "imbragarmi" per farmi star fermo - intanto, mamma predisponeva la farina di lino, spalmandola sul panno bianco che aveva introdotto nel forno - "l'àa essi ben coldu, Pierina" (deve essere ben caldo, il panno, Pierina) e mamma s'è presa la precauzione di passare il panno, non dalla parte unta di olio e farina, sulla sua guancia - "l'e coldu giustu" (è caldo giusto) risponde mamma, mentre io tentavo di divincolarmi dalla morsa di zia. C'è chi dice che "a useu men'strascè" (urlavo come lo straccivendolo) come era in uso di dire. Nessuno mi venne in aiuto ed io, stoicamente mi sono sentito braccato, intrappolato e impossibilitato a superare la forza-bruta delle braccia di zia.

E si compì... l'olocausto - non so quante ore (quanti minuti o quanti secondi) quell'osceno panno con la polentina, mi fu messo da mamma sul mio torace indifeso, immacolato, senza peli - urlai come un disperato "tosi ca te guaisi" (taci che guarisci) dicevano in coro mamma e zia, ma di fronte ai miei odiosi dinieghi a sopportare l'atroce dolore che mi produceva la polentina, ho solo appreso che se così è l'inferno, forse e meglio "fa cò" (fai testa - ragiona), come mi proponeva mamma.

So che papà è corso in mio aiuto, lasciando stare la "missuia" (piccola falce) che stava utilizzando per tagliare l'erba e sbottò in un "s'a si dre foghi a chèl fioeu lì?" (cosa state facendo a quel bimbo?) - e di fronte alle due donne perplesse e beccate in fallo, si scoprì che il mio petto, oltre ad essere diventato rossastro e paonazzo, si era gonfiato come il seno di una donna. 

Papà prese subito la decisione di portarmi all'Ospedale, con mamma e zia che ci seguivano timorose e quasi... smarrite - un solerte medico, mi prese in cura e con circospezione analizzò le piaghe sul mio corpicino e sentenziò: "si drè fal'à rostu chel fioeu chi?" (lo state cucinando arrosto?).

Mi impose medicamenti che non so descrivere, ma ho riconosciuto l'ittiolo, nero come la pece ed altre pomate untuose, puzzolenti e schifose che avevano il compito di lenire il mio dolore e di farmi guarire. - non commento altro - so solo che papà (sempre buono come il pane fragrante) in quella circostanza, forse per superare la sua paura, disse a mamma e zia, parole roboanti e non solo piacevoli con un finale che mi piacque poco "a ghe gnu'l, pettu me'na dona" (gli è cresciuto il seno come a una donna), ma il medico, conciliante disse "tranquil Giuletu. ga oei ul so tempu, ma dopu ga passa tuscossi" (tranquillo Angioletto, occorre il suo tempo, poi ridiventa normale) e, alla visita "di Leva Militare" il medico preposto, dopo avermi analizzato per bene, se la cavò col "quella fiacca sul torace, a cosa è dovuta?" - dopo una succinta spiegazione ho compreso il significato specifico di "a màasi sa fò'sveltu, ma a guaì ga oei tempu" - Giusepèn ha già versato il Nocino: prosit!

Gianluigi Marcora

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