Cronaca - 14 ottobre 2025, 14:35

Figlia di Fontana contro Report, assolti Ranucci e Mottola: «Il fatto sussiste ma non costituisce reato»

Il tribunale di Varese assolve il conduttore e l’inviato della trasmissione di inchiesta dall’accusa di diffamazione aggravata nei confronti dell’avvocato Maria Cristina Fontana, figlia del presidente della Regione Lombardia. «Il limite del diritto di cronaca è stato valicato», aveva sostenuto il pm, ma per il giudice non vi è dolo: la notizia rientra nell’esercizio della libertà di stampa

Maria Cristina Fontana

Maria Cristina Fontana

Si è concluso con una sentenza di assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» il procedimento penale per diffamazione aggravata che vedeva imputati Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola, rispettivamente conduttore e inviato della trasmissione d’inchiesta Report, in onda su Rai 3.
Al centro del processo, celebrato davanti al Tribunale di Varese, la puntata del 19 ottobre 2020 intitolata “Mogli, camici e cavalli dei paesi tuoi”, nella quale si ipotizzava un presunto conflitto di interessi legato agli incarichi professionali dell’avvocato Maria Cristina Fontana, figlia del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, per l’Asst Nord Milano.

L’accusa: «Valicato il limite del diritto di cronaca»
Nel corso del dibattimento finale, il pubblico ministero Monica Crespi aveva sottolineato come il servizio e il relativo trailer avessero «valicato abbondantemente il limite del diritto di cronaca», utilizzando titoli accattivanti e una chiamata “a sorpresa” all’avvocato Fontana che, secondo l’accusa, avrebbe esposto la parte civile a un pregiudizio mediatico. Il pm aveva chiesto la condanna dei due giornalisti a una pena pecuniaria di 700 euro ciascuno, ritenendo che il taglio del servizio e la modalità d’esposizione avessero travalicato la continenza informativa richiesta dal codice deontologico.

La parte civile: «Una notizia artificiale, un trabocchetto mediatico»
L’avvocato Fabio Schembri, difensore di parte civile, aveva sostenuto con fermezza la responsabilità penale dei giornalisti, affermando che il servizio fosse fondato su «una realtà fattuale inesistente». Secondo Schembri, Report avrebbe «creato una notizia artificiale» basata su un presunto conflitto d’interesse “in concorso” con il padre, senza riscontro oggettivo nei fatti: «Si sono basati su un piano soggettivo, non su dati reali. Hanno costruito una narrazione che suggerisce che la figlia del governatore abbia abusato della propria posizione per ottenere vantaggi professionali». L’avvocato ha inoltre richiamato la giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale il diritto di cronaca deve attenersi ai principi di verità, buona fede e correttezza formale: parametri che, a suo dire, non sarebbero stati rispettati. La parte civile aveva chiesto, in via condizionale, un risarcimento di 30.000 euro per i danni morali e reputazionali subiti, associandosi alla richiesta del pubblico ministero.

La difesa: «Era giornalismo d’inchiesta, nel rispetto del diritto di critica»
La difesa degli imputati, rappresentata dall’avvocata Alessia Liistro, ha ribadito che la puntata contestata rientrava pienamente nei canoni del giornalismo d’inchiesta. «Il servizio - ha spiegato - non conteneva accuse ma poneva interrogativi su possibili sovrapposizioni di ruoli, nel rispetto dell’interesse pubblico della notizia. I giornalisti hanno agito nell’esercizio della libertà di stampa e del diritto di critica».
Liistro ha inoltre disconosciuto «ogni accusa di sessismo o pregiudizio di genere» e sottolineato che «il trailer non fa parte del capo d’imputazione». Citata in aula, la stessa dichiarazione di Giorgio Mottola: «Abbiamo trovato una notizia di interesse pubblico e l’abbiamo raccontata. Se non lo avessimo fatto, avremmo mancato al nostro dovere professionale».

La decisione del Tribunale: «Fatto sussiste, ma senza dolo»
Il giudice del Tribunale di Varese ha ritenuto che il fatto sussista, in quanto la trasmissione ha effettivamente generato un effetto lesivo sulla reputazione dell’avvocato Fontana, ma non è di origine dolosa. In ambito giuridico, il dolo indica la volontà consapevole di offendere l’altrui reputazione: presupposto necessario perché una condotta possa configurarsi come diffamatoria in senso penale. In questo caso, secondo il giudice, i due giornalisti non hanno agito con l’intento di diffamare, ma nell’ambito di un’attività giornalistica finalizzata all’approfondimento di questioni d’interesse pubblico. Pertanto, pur riconoscendo l’imprecisione di alcune ricostruzioni e l’impatto mediatico del servizio - visto da oltre 3 milioni e mezzo di spettatori con il 10% di share - il Tribunale ha escluso la sussistenza del dolo e ha pronunciato sentenza di assoluzione piena:
«Il fatto non costituisce reato».

Un processo emblematico
La vicenda giudiziaria, durata quattro anni e più volte rinviata, si chiude così con una sentenza che riafferma i limiti e le responsabilità del giornalismo d’inchiesta, ma anche la tutela della libertà di informazione. Restano tuttavia ancora online, sulle pagine ufficiali di Report, della Rai e dello stesso Sigfrido Ranucci, i trailer e i commenti offensivi rivolti alla parte civile, elementi che - come sottolineato in aula - continuano ad alimentare un dibattito acceso tra diritto di cronaca e rispetto della dignità individuale.

Alice Mometti

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