Lo vedo sereno, Giusepèn. Dialoga con gentilezza e stupore. Poi, "va 'nanzi, mola non" (vai avanti, non mollare) - lo dice ammiccando. "Nisogn ga cugnusi a vita groma dul paesàn e chela da ringhèa. Ti si... va 'nanzi" (nessuno conosce la vita dura del contadino e quella delle case di ringhiera. Tu, si!, continua a scriverne) - comincia così la Narrazione, rispolverando i discorsi antichi, gli usi, le tradizione, i dialoghi fra la gente semplice. Chi s'è cimentato col Dialetto Bustocco, l'ha fatto in buona fede. Dopo avere studiato l'italiano. Dopo essersi imposto di rievocare la vita d'un tempo. Dopo averla sentita e mai vissuta, ma semplicemente averla sentita raccontare.
La "ringhiera" era una specie di ballatoio dove si affacciavano soprattutto le donne: per stendere i panni ad asciugare, le lenzuola a prendere aria, insieme ai cuscini... intanto, sempre le donne, si scambiavano le poche notizie quotidiane, i crucci, i pensieri, le speranze. Tutto, alla buona per offrire alla vita quella semplicità fatta di sacrifici, di rinunce, per raccontare la vita e renderla meno cruda e maggiormente solidale per porre aiuto a chi ne aveva bisogno.
Gli uomini facevano altro: nella stalla, soprattutto, ad accudire gli animali, a preparare gli attrezzi di lavoro, a "ipotecare" la giornata coi doveri: la mungitura, la pulizia della stalla, il ricambio d'erba e di fieno per fornire all'animale quel sollievo di pulizia, necessaria per incutere rispetto.
Qui Giusepèn, vuole i particolari: "ghea a mota dul rudu" (c'era lo spiazzo per il letame) costituito perlopiù dallo sterco della mucca che veniva sormontato dallo strame, utilizzato come giaciglio. Poi, a tempo debito, lo sterco (à buascia) si stendeva nel campo e col vomere dell'aratro tirato dal cavallo o dal bue, si concimava la terra. Sempre nel campo si portava a mano, dentro il secchio, il liquame della latrina. La terra diventava rigogliosa e i frutti che donava erano sani, corposi, d'un profumo tosto e salutare. In quei giorni, le donne di casa (le masèe) sapevano che non dovevano stendere la biancheria, per non essere "profumata" con quel olezzo che proveniva dal campo, ma pure dall'orto, ben accuditi e concimati.
Per "palati fini", Giusepèn mi fa evocare il compito che coinvolgeva noi ragazzi di allora. Raccogliere per strada, le "figoe" (lo sterco dei cavalli), muniti di un secchio alla bisogna e in mano "a cazòea" (la cazzuola), attrezzo in uso ai "maistàr" (muratori) da non confondere con "a casòea" (il bottaggio) piatto prelibato dalla cucina Bustocca (lo dichiaro subito... a me, la "casòea" è mai piaciuta) - e sapete a cosa servivano le figoe? - da mettere nei vasi dei fiori, dopo aver "scarlatò" (mosso) il terreno. Tra la terra e il fiore, si metteva "a figòea" che penetrava dopo aver protetto il terreno, per offrire, linfa e forza al seme che germogliava e donare al fiore, alla pianta, il necessario per crecere, profumatissimo, coi colori naturale d'uno splendore assoluto.
E siamo alla "buascia" - come ho detto, è lo sterco della mucca - mentre "a figoa" la si raccoglieva per strada (che , allora, come il 99% delle strade, non era asfaltata), la "buascia era prettamente "da stalla" a formare il letame, di cui s'è detto - Giusepèn annuisce. Ciò mi basta per sentirlo contento.
Che aggiungere? Due note, senza acredine, senza ridire su chi allora scriveva di Dialetto Bustocco e di noi (Giusepèn ed io) che parliamo e scriviamo di Dialetto Bustocco da strada.
Loro, gli "intellettuali", traducevano il Dialetto, dall'Italiano - in casa, a malapena, lo avevano parlato, il Bustocco, ma nello scrivere, ci mettevano inflessioni di italiano, di milanese, di varesotto - noi (Giusepèn ed io) conoscevano solo e unicamente il Dialetto Bustocco, da strada: unico e vero, irreversibile e da tramandare. Non voglio scrivere più che alle Elementari, ero sprovveduto con l'italiano - come se oggi mi dicessero di imparare il Tedesco - e ci ho messo parecchio tempo, per comprendere un "dettato" dalla maestra o di svolgere un tema in Lingua madre (l'Italiano).
Quel notorio (per qualche Lettore) detto dalla signorina maestra, Maria Pia Vandoni a mia mamma "vede signora Pierina, suo figlio non parla l'italiano corretto, ma parla e scrive il Dialetto Bustocco, tradotto" e, tuttora mi accorgo che quei "sei" sulla pagella era più un incentivo a studiare, piuttosto di un merito acclarato - non me ne facevo una colpa, ma oggi mi serve a dire che il Dialetto Bustocco da strada, è quello di Giusepèn e il mio e... "na olta morti nogn, ga moi anca un Dialetu" (lo dice Giusepèn) "una volta morti noi, muore anche il Dialetto Bustocco, da strada" - "i sciui ean butuoi a parlo 'l taglian" (i signori che in realtà erano unicamente i ricchi, erano abituati a parlare l'italiano) magari infarcendo le due Lingue in maniera pacchiana e... da strappo del cervello.
"Ora è là, come in croce" tratto dal "X Agosto" di G.Pascoli, riferito alla "rondine con il verme nel becco" che rende al Cielo il dono che voleva portare a casa - e quel "dono" è mai arrivato. "Sarà così, Giusepèn, anche per Noi, per il nostro Dialetto "combattuto e vilipeso" che si spegne come un ceppo che arde nel camino e che cessa dopo la normale combustione! - è il nostro "dono" a questa terra, Busto Arsizio, amata all'inverosimile, ma... la nostra, dove la Provvidenza, ci ha fatto nascere!