Storie - 10 gennaio 2025, 16:30

Il Falò di Sant'Antonio a Varese è amore, calore e colore: «Dal furto di una latrina da gettare nella pira ai bigliettini che realizzano il sogno dell'anima gemella»

Gli aneddoti e le emozioni della festa cittadina più leggendaria, che andrà in scena giovedì 16, nelle parole dal "monello" tra i Monelli Gianandrea Redaelli: «Buttammo nel fuoco anche vecchi mobili dell’oratorio di San Vittore e alberi di Natale. I bigliettini con i desideri dei bambini lanciati nei palloncini a volte sono ritrovati su qualche sentiero di montagna e ci arrivano le risposte. La benedizione degli animali? Capitò che le galline fuggirono per tutte le vie del centro. E una cucciola di tigre venne chiamata "Motta"»

Arde il fuoco della passione e della tradizione per "Sant’Antoni del porscell" grazie ai Monelli della Motta. Sotto in gallery nemmeno il Covid ferma il falò: nel vuoto e nel silenzio assoluto la statua del santo viene portata per le vie della città fino alla Basilica di San Vittore

Arde il fuoco della passione e della tradizione per "Sant’Antoni del porscell" grazie ai Monelli della Motta. Sotto in gallery nemmeno il Covid ferma il falò: nel vuoto e nel silenzio assoluto la statua del santo viene portata per le vie della città fino alla Basilica di San Vittore

Il fuoco è calore, colore e amore, il fuoco è passione e tradizione, bellezza e speranza, e il Falò di Sant’Antonio è lo specchio di tutto ciò, un unicum capace di portare in Piazza della Motta centinaia di persone ogni anno, e non c’è freddo, pioggia, vento o neve (un tempo) che tenga. Perso negli anni, l’appuntamento del 16 sera è ritornato con forza nel cuore dei varesini grazie all’instancabile lavoro dei Monelli della Motta, che puntuali preparano la pira e provvedono a rendere più cordiale il gennaio con vino e salamelle, la cui ricetta rimane un segreto. Tra i più sfegatati animatori del falò c’è il monello Gianandrea Redaelli, direttore de “La Tipografica Varese” e figlio di Giuseppe che dei Monelli è il presidente dal 2012, dopo il passaggio di consegne da parte dell’indimenticabile Angelo Monti.

Gianandrea è un entusiasta, lo si percepisce dalla voglia di comunicare aneddoti ed emozioni legati a quella che ormai è rimasta l’unica festa di piazza cittadina, nominata persino da Giovanni Antonio Adamollo nella sua “Cronaca di Varese”. Il falò è cambiato negli anni, una volta era quasi una sagra paesana, sulla pira si gettava di tutto, dagli alberi di Natale alle vecchie sedie, oggi è tutto regolamentato e a norma di legge e decreto, con bancali certificati e aumentata sicurezza, ma il fascino rimane, così come la speranza per i ragazzi (e non solo) di trovare l’anima gemella.

«Oggi il falò ha bisogno di un ingegnere, Andrea Bonizzi, per progettare la pira, con la consulenza del collega Carlo Bosoni e uno staff di ben 70 persone addette alla gestione delle persone nella piazza e nelle vie limitrofe. Io e i Monelli della mia generazione abbiamo ridato slancio al falò grazie soprattutto a una rinnovata comunicazione, e oggi stiamo cercando di interessare i giovani, nella nostra associazione abbiamo “arruolato” due diciottenni. Un tempo era tutto più semplice, ricordo di aver buttato nel fuoco alcuni vecchi mobili dell’oratorio di San Vittore, gli alberi di Natale e perfino materiale d’archivio che ci portavano i notai», racconta Gianandrea Redaelli.

Gli aneddoti sui vari falò si sprecano, alcuni li aveva raccolti nel 2005 Alberto Bortoluzzi, nel libro “17 gennaio S. Antonio Abate” assieme a molte suggestive immagini che ritraggono i Monelli di allora e il falò ripreso dall’alto molto prima dell’avvento dei droni.

«Un aneddoto leggendario riguarda quello del furto della porta della latrina di un’osteria che stava in via Vetera, durante il Ventennio. I Monelli la portarono via per bruciarla ma in quel momento all’interno c’era qualcuno intento ai suoi bisogni, forse un fascista, forse il questore, che pare li avesse inseguiti con le braghe calate. I Monelli non guardavano in faccia a nessuno, sulla pira andavano le persiane delle case e dei negozi, alberi tagliati ai Giardini Estensi, mobili di ogni tipo. Oggi sarebbero fuorilegge, ma già verso il 1918 la stampa non era benevola nei loro confronti, giudicandoli teppisti autori di gesti pagani, che nulla avevano a che vedere con il santo. Il Falò ha avuto una debacle nel primo dopoguerra, poi è rinato dagli anni Sessanta, non si è mai saltato un anno, nemmeno per il covid. Allora nel vuoto e nel silenzio assoluto portammo anche in processione la statua del santo per le vie della città fino nella Basilica di San Vittore».

Oggi i Monelli gestiscono l’avvenimento di concerto con le direttive del Comune, e le aziende del territorio, compresa Lativa, forniscono i bancali certificati non inquinanti, mentre i Vigili del Fuoco di Varese sovrintendono all’incendio come volontari, fuori dal servizio ordinario.

«Anche i bigliettini da gettare nel fuoco hanno una loro aneddotica. Varese nell’800 era una terra povera, così i ragazzi emigravano in cerca di lavoro e ritornavano a casa per Natale, l’unica occasione per rivedere la fidanzata. Ecco allora che il bigliettino rappresentava la speranza prima o poi di convolare a nozze. La leggenda vuole che le coppie sterili mettessero la cenere del falò sotto il materasso come incentivo alla fecondazione. Questo è l’anno giubilare con il tema della speranza, e sarebbe bello che i bigliettini fossero anche un’opportunità per sperare nella benevolenza del Santo. Sono stato testimone di due matrimoni avvenuti dopo la richiesta scritta gettata nel fuoco, e del trasferimento lampo di un carabiniere arrivato a Varese dalla Campania e parecchio scontento della destinazione. Il suo desiderio di andarsene da qui fu esaudito dopo pochissimi giorni dal rogo di piazza della Motta».

Chi dice falò dice salamelle, che fino alla metà degli anni Ottanta si gustavano bollite. «E c’era anche un certo Walter che per scaldarsi le braccia intirizzite le metteva nel pentolone. Oggi si mangiano alla piastra, le confeziona la macelleria Martinelli di Brenno Useria, con una speciale ricetta messa a punto insieme ai nostri cucinieri. Alla sagra ci sono due tipi di banchi, quelli degli operatori gastronomici del nostro territorio, in via Carrobbio, e quelli invece di venditori provenienti da altre zone d’Italia. Purtroppo non ci sono più i “pessitt”, un anno siamo riusciti ad averli di nuovo ma a un costo esagerato. Resistono le frittelle e lo zucchero filato, mentre sono scomparse anche le file di castagne secche. Poi il 17 c’è il lancio dei palloncini, oggi in plastica biodegradabile, con i bigliettini dei bambini, una trovata di Angelo Monti degli anni Ottanta. Spesso i biglietti sono ritrovati su qualche sentiero di montagna e ci arrivano le risposte. Anche la benedizione degli animali vanta i suoi aneddoti: un anno in quel periodo c’era un circo a Varese e nacque una cucciola di tigre, portata poi a benedire e chiamata “Motta”. Una volta un contadino arrivò con delle galline che si sparpagliarono per la città, con i Monelli a rincorrerle per le strade», aggiunge Redaelli.

L’associazione dei Monelli della Motta, nel corso degli anni ha dato vita a diverse iniziative, tra le quali l’illuminazione del campanile di San Vittore, il restauro della facciata della chiesa della Motta e quello di una straordinaria tastiera per il concerto di campane, rinvenuta sul campanile di Sant’Antonio. Nel gennaio 2023 è stata rimessa in funzione in occasione del falò.

«Il ricavato della festa, come sempre, sarà devoluto in beneficenza a due associazioni del territorio, la “Casa di Paolo” che si occupa dell’educazione dei minori disagiati, e “Noi con te per te”, che assiste famiglie in difficoltà». Gianandrea Redaelli dice di avere due interrogativi ancora irrisolti in merito all’affezione dei varesini per “Sant’Antoni del porscell”.

«Mi chiedo perché lui e non San Vittore sia diventato il beniamino locale, forse per la sua figura bonaria, con la barba e il porcellino, mentre Vittore era un soldato romano meno glamour, diremmo oggi. Poi cosa spinge centinaia di persone a stare ore al freddo per veder bruciare della legna. È il fascino del fuoco, probabilmente. Vent’anni fa riprendevamo il falò con una webcam, e c’erano ragazzi della nostra età, magari in giro per l’Europa per studiare, che ci scrivevano, dicendo di essersi collegati per vedere il rogo e capire gli auspici per l’anno in corso. Sant’Antonio, insomma, è internazionale».

Mario Chiodetti

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