Di solito, i racconti che suggerisce Giusepèn e che io "metto in penna", sono gioiosi, (consentitemelo), riflessivi e mettono in luce "attimi di vita" che lui, Giusepèn, ha vissuto (e che anch'io ho sperimentato -poco in verità- nella mia vita).
Il racconto che propongo ora, su consiglio di Giusepèn, non è noioso ma è triste... lasciatemelo scrivere. La vita è fatta di "prove" e questo pezzo di vita, racconta proprio talune "prove" che Giusepèn ha vissuto, ma che io ho vissuto solo in parte.
Eccoci allora alle prese con la "calastria" che è la peggiore delle indigenze; ciò che tuttora vivono i Popoli in guerra o i Popoli "derubati" dalle loro risorse che nemmeno posseggono il necessario, il più stretto necessario, come l'acqua pulita da bere o il latte da mangiare.
La "calastria" a cui allude Giusepèn, è quella che s'è manifestata prima-durante-dopo la guerra. Ha visto dappertutto sacrifici estremi e solenni rinunce; tanto che anche di fronte alla "tessera" in vigore nei tempi addietro, la gente aveva poco per nutrirsi e quasi niente per una fantasia-culinaria.
"a cà mia, ghea a minestra e ul pan negar" (a casa mia c'era la minestra e il pane nero". "ul cundimentu l'ea ul lardu e i cudighi dul purscel" (il condimento era rappresentato dal lardo e dalle cotiche del maiale), "cara grazia s'à te pudei mangiò un tuchetu da gurgunzoea o 'na fetta da bulogna o da spala crua" (cara grazia se potevi mangiare un pezzo di formaggio-gorgonzola o una fetta di mortadella di bologna o di spalla cruda" - "ul prosciuto a saean non mal'ea e a fruta ean i pom e 'na coi mugnoga o i sciesi, candu ghean" (del prosciutto non sapevamo com'era e la frutta erano le mele e qualche albicocca o le ciliegie quando maturavano" - "in invernu ghea i cochi e 'n cai figu cal vanzea su su a pianta e 'na cai niscioea catao non" (in inverno c'erano i cachi e qualche fico che maturava tardi e restava sulla pianta e qualche nocciola non colta", per inquadrare uno stato di indigenza che nulla aveva a che fare con l'alimentazione.
Le persone si accaparravano (dove potevano e in base ai pochi soldi che possedevano) derrate alimentari di "fortuna", qua e là, dove si sentivano persone disposte ad aiutare il prossimo, senza contare chi vendeva a "borsa nera" che aveva "clienti", ma erano persone che puntavano ignominiosamente all'affare più che all'aiuto.
Il quadro sembra delirante, ma la "calastria" colpiva tutti (più o meno) e, come sempre accade, durante la guerra (ignobile) c'è chi si arricchisce e chi si spossessa di tutto pur di campare. C'erano pure le rapine nei campi e nelle stalle e chi aveva galline nel pollaio, doveva vigilare non contro le faine, ma contro i furti copiosi che si mettevano a segno durante la notte.
"Calastria" fa rima con "malattia" e la salute precaria conduceva a morte repentina, per le fatiche compiute e per i disagi del troppo lavoro non supportato da un'alimentazione scarsa. Certo, c'era la polenta... e la troppa polenta procurava la gotta. Giusepèn non vuole andare oltre, ma il messaggio che offre, non è desolante: "mei eghi pocu, tuci che pochi ad eghi tuscossi" (meglio avere poco, tutti, piuttosto di pochi ad avere tutto" e odiare la guerra è avere coscienza e procurare la guerra è da sconsiderati.