Busto Arsizio - 26 marzo 2024, 15:00

L’Università cittadina fa rivivere “La pittura lombarda negli anni di Carlo e Federico Borromeo”

Mercoledì 27 marzo lo storico Giuseppe Pacciarotti spiega come gli alti prelati seppero rinnovare la diocesi di Milano anche nell’arte

L’Università cittadina fa rivivere “La pittura lombarda negli anni di Carlo e Federico Borromeo”

Carlo e Federico Borromeo vollero, e seppero, riformare la vastissima diocesi di Milano non solo adeguandola allo spirito e alle direttive del Concilio di Trento, ma rinnovandola anche nell’architettura e negli arredi. Si parlerà della “Pittura lombarda negli anni dei Borromeo” mercoledì 27 marzo (ore 15.30) al Museo del tessile nell’ambito dell’Università cittadina per la cultura popolare.

A illustrare l’argomento interviene lo storico Giuseppe Pacciarotti.

Racconterà di Carlo, arcivescovo dal 1565 al 1584, che promosse l’erezione di santuari e chiese e stabilì norme rigorose, precisate nelle Instructiones Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae. «Proprio come esempio diede nuova sistemazione al presbiterio del Duomo di Milano dove, in posizione eminente e distante dai fedeli, il suo architetto di fiducia, Pellegrino Tibaldi, collocò l’altare sovrastato dal tabernacolo, la dimora dell’Eucarestia – spiega il relatore - Sempre nel presbiterio furono disposte cantorie e organi, questi ultimi protetti dalla polvere e dai fumi tramite enormi tele dipinte dagli artisti allora più in vista:

Giuseppe Meda e Ambrogio Figino, di cultura romana, e Camillo Procaccini formatosi in Emilia».

Un fratello minore di Camillo, Giulio Cesare, fu invece tra i protagonisti della pittura dei primi trent’anni del Seicento quando era arcivescovo Federico, uomo di profonda e vasta cultura – fu lui a istituire la Biblioteca, l’Accademia e la Pinacoteca Ambrosiana - e raffinatissimo collezionista: la Canestra di frutta del Caravaggio e non pochi quadri di pittori fiamminghi impreziosivano la sua raccolta.

«A celebrazione del cugino Carlo diventato santo nel 1610, Federico volle far raffigurare le sue Storie e i suoi Miracoli da artisti di gusto nuovo, portatori di una pittura ricca di dramma e di compartecipazione come si ammira soprattutto nelle tempere di Giovan Battista Crespi detto il Cerano in cui forte emerge il senso della realtà – prosegue - Artista di vigorosa vena narrativa fu anche il Morazzone autore di affreschi di concitata animazione nelle cappelle dei Sacri Monti di Orta, Varese e Varallo Sesia; in quest’ultimo fu attivo anche il Tanzio da Varallo, un artista a lungo presente a Roma che, tornato nella sua valle e nelle terre del Novarese, diffuse in durezza montana il realismo caravaggesco».

Una pittura di minor coinvolgimento emotivo e devozionale, ariosa e soffice nell’eleganza non dimentica del Correggio e del Parmigianino, fu invece quella del già nominato Giulio Cesare Procaccini a cui guardò poi il più giovane Francesco Cairo, autore di tele pervase da un senso di languido o di turbante abbandono. «La vivacità e la varietà della pittura degli anni di Federico Borromeo – conclude - ebbero drammatica fine con la peste del 1630.

Tuttavia, poco prima di morire colpito da quel morbo, un altro giovane, Daniele Crespi, nelle Storie di San Bruno affrescate alla Certosa di Garegnano avanzò nuove e raffinate proposte pittoriche siglate da una vena narrativa efficace per la riflessione dei fedeli».

L. Vig.

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