"Ghe non trol lardu da daghi àa gata" (non c'è troppo lardo da dare alla gatta). Attacca così, Giusepèn. In realtà affronta un argomento attuale. Argomento "molto in voga" in momenti antichi, "baciati" dalle ristrettezze. Giusepèn è categorico "nogn am pruò a calastria" (noi abbiano vissuto un periodo nerissimo) - attenzione, la "calastria" non è la povertà o un vivere di stenti. La "calastria" è la miseria più nera; quella delle "tessere" (per acquistare i beni di prima necessità) che il Regime Fascista affidava alle famiglie per sopravvivere.
Allora, durante il famoso "ventennio Fascista" l'Italia era così povera da vivere con pochissimo. Dopo la "grande guerra - 1915-1918" il Popolo Italiano affrontava la "ricostruzione" e per l'intero arco di tempo che porta alla seconda grande guerra (1940-1945) si viveva, ci si adattava sopportando sacrifici che, a parlarne ora, si rischia di sentirsi dire "esagerato".
Giusepèn, Classe 1926 sa bene qual era il tenore di vita di quei tempi e il detto "ghe non trol lardu da daghi àa gata" vuole significare tante cose. Citiamone qualcuna. Il "lardo" prima di tutto. Era il condimento principale per ogni piatto. La penuria di olio e la mancanza assoluta di burro e di derivati, faceva sembrare il lardo, una leccornia. Vero: c'era chi aveva gli animali in casa (mucche, pollame, conigli), ma per tutte le cucine della gente povera, il lardo era "ufficialmente" il condimento per tutto. Oltre alla cucina, il lardo lo si usava per gli occhi arrossati, per le "polentine", per le sbucciature. E per altro ancora.
Il lardo dentro la minestra, le dava sapore. Guai buttarne la cotica. La si utilizzava per abbrustolire una bistecca o per insaporire un piatto prelibato del tipo "bruscitti, brasato" ma pure "carne e patate, senza carne". Giusepèn me lo dice: ""carne e patate senza carne" non è un ossimoro. Vuol dire che si cuocevano le patate con dentro il lardo o le cotiche, poi, lo si toglieva e quelle patate assumevano il sapore della carne, "illudendo" di assaporare il piatto di "carne con patate".
Mi fa ricordare, Giusepèn, un aneddoto che mi ha coinvolto. Quando si parla di "polentina" si vuole significare che allora, contro una bronchite o un raffreddore "insaziabile" si ricorreva a un impacco di farina di mais, con una spruzzata d'olio (penso d'oliva) e si metteva il tutto sopra a un panno di cotone ben consistente. Poi, tenendo ben fermo il "malcapitato" si poneva il panno con "polentina" sotto il mento del malato, sino a coprire l'intero petto e si aspettava che il calore con la "polentina" facessero il loro corso. Magari, insieme ai "fumini" si aiutavano i polmoni a riprendersi e a guarire le vie respiratorie.
Giusepèn mi ricorda che all'epoca (avevo si e no quattro anni), avevo "qualcosa" ai polmoni. Mamma fece riscaldare per bene la "polentina" e chiese a Zappi (la zia Giuseppina) di tenermi fermo. Zappi seduta su una sedia, il "piccolo martire" seduto sulle ginocchia di Zappi, ma col busto rivolto a mamma, dando le spalle a Zappi. Mamma eseguì l'operazione: appioppò il panno bollente sul mio corpicino e un urlo atroce risuonò nella "foresta" del rione. Testimonia Giusepèn che mi venne un "petto dàa quinta" e allora non sapevo cosa fosse. Mi portarono al Pronto Soccorso , dove mi fecero "qualcosa" che non so. So che (è sempre Giusepèn che testimonia) a mamma e a zappi, il medico disse che si erano comportate da "criminali" e che la scottatura era ignobile. Alla visita della Leva Militare (quindi, parecchi anni dopo), il medico dell'Aviazione volle sapere a cosa debbo quella cicatrice sul petto. Glielo dissi: "polentina" e non furono necessarie altre spiegazioni.
Ora, la cicatrice (quasi) è scomparsa, ma Giusepèn lo catechizza: in caso di scottature, non usate la polentina, Meglio utilizzare il lardo. Che male non fa! Ammorbidisce, insaporisce, ma non altro!