E' in forma, Giusepèn. Salta fuori con un detto che solitamente si usa a Natale. E che si usava "ai me tempi" (ai tempi miei), dice con profonda ironia. Faccio finta di non conoscerlo, il detto, ma tale detto l'ho sperimentato "de facto" (veramente). La terminologia completa è "un nagutèn d'ou, fèi su dàa carta d'argentu" (un niente d'oro, con l'involucro di carta d'argento). Lo si diceva dopo una specifica domanda. Che va bene per Natale, ma va pure bene per qualsiasi altra ricorrenza.
La domanda era: "s'à t'àn regolò a Natòl? (o par ul to cumpleàn, o pàa Cresima o pàa Comunion?) vale a dire (cosa ti hanno regalato a Natale?) e la risposta ovvia era il "nagutèn d'ou" e ci si doveva arrendere all'evidenza. Non è che ai tempi del Giusepèn "ghèa tantu lardu da daghi àa gata" (tanto lardo da offrire alla gatta) nel senso di abbondanza; quindi ci si doveva accontentare con quel che c'era o (come si diceva) "cun chèl ca ga passa ul cunventu" (con i mezzi scarsi di allora, consentivano).
Da "sberlòi àa buca" (sberle alla bocca) nel senso di sacrifici. Non ci si martoriava con ceffoni sulla bocca, ma è per significare il senso della rinuncia; il centellinare ogni tipo di sacrificio per fare quadrare il bilancio familiare. Tanto per capirci meglio; il prosciutto (crudo o cotto) lo si mangiava a Natale o a Pasqua, i "biciulàn" (pasticcini) …. qualche domenica o in qualche ricorrenza, l'abito nuovo, in occasione di uno speciale evento, tipo Cresima o Comunione, Sposalizio di un parente stretto. Non cito le vacanze, non erano contemplate. Allora, la vacanza era una passeggiata al Sacro Monte di Varese o una pedalata al Ticino, con le precauzioni del caso.
La vita contadina o quella operaia era incentrata sul Lavoro; guai derogare da essa. I "sciui" (ricchi) esistevano anche in quell'epoca, ma (parliamoci chiaro) non dovevano sottostare alle Leggi Fiscali odierne. Per cui, continuiamo a chiamarli Benefattori, come è giusto citarli, ma …. non tutto era oro quanto luccicava. C'era poi un detto che andava per la maggiore, in merito alla "paga" da assegnare ai Lavoratori. La "masèa" (donna di casa), colei che doveva provvedere al vitto (e al resto) discute col marito e gli dice "dighi al tò padròn da aumentò a pòga … cun tre fioeu e nogn du, ga lu fò non a davi da mangiò, vestissi e tutu'l restu" (rendi noto al tuo principale di aumentarti la paga … con tre figli e noi due, non ce la faccio ad acquistare il cibo, il vestiario e il resto che necessita). Ovviamente per l'intera famiglia.
Compreso bene l'avviso che la "masèa" dice al marito, ecco l'incontro dell'operaio col suo Titolare. Dialogo spiccio, di poche parole, ma puntata decisiva al nocciolo della questione. Il padre famiglia dice chiaro e netto al suo Datore di Lavoro: "sciur padròn, te a umnetò a poga … gu là cenc cu da fò cagò" e (diciamolo) la traduzione non è proprio da bon-ton, ma rende l'idea ed è efficace. Sentitela: "signor padrone (si usava dire così al Titolare d'Azienda), deve aumentarmi la paga … ho a casa cinque sederi da fare defecare" per dire che i bisogni riguardanti il vitto, cominciano con l'acquisto di quanto occorre per nutrirsi (generi alimentari) che successivamente hanno epilogo al cesso. Giusepèn, annuisce ! …. il Nocino serve ora per …. deglutire meglio!