La frase indicata nel titolo è emblematica. La traduzione c'è e merita una spiegazione. Quel "esussi" soprattutto che non ha una traduzione specifica, ma significa semplicemente "pace". Qui esige un'aggiunta: "pace eterna" nel rispetto dei nostri "cari morti" che, nella fattispecie, sono indicati "poveri morti". Chiariamolo subito; il "poveri morti" catechizza un segno di pietà nei loro confronti. Niente a che vedere coi "poveri" per la gente semplice. Poveri morti per il dispiacere di non avere più la loro presenza corporale. Tutto qui!
Quel "esussi" dimostra anche un senso di piacevolezza... come a dire... "meno male che s'è mangiato anche oggi... così, anche i nostri cari estinti abbiano un senso di pace" e non abbiano a "scomodarsi" per noi che li stiamo evocando. Sottolineo anche il detto "tuci" (tutti), per un "nessuno escluso" quindi si accomuna in ogni famiglia, quella solidarietà vigente all'epoca che coinvolgeva tutti in una preghiera.
Io la sentivo spesso da mamma, quella frase. Evidenziava anche un ammonimento; specie a me che talvolta protestavo con una frase cretina senza riconoscenza..."ma tutti i giorni, in questa casa, si mangia minestra?" - non mi accorgevo del dispiacere indiretto che causavo ai miei. Mamma tuttavia, rispondeva... "ringrazia ul Signui ca podu dati a minestra e caicossa dopu... ghe genti ca ga non nanca chela" (ringrazia il Signore che posso cucinarti la minestra e qualcosa dopo... ci sono persone che non hanno nemmeno quella). Era a questo punto che riflettevo e facevo "buon viso a cattiva sorte"... era colpa di nessuno essere poveri "puaiti, ma cunt'unui" (poveretti, ma con onore). Discorso chiuso lì.
Tanto per chiarire, oltre alla minestra quotidiana (un giorno con riso - un giorno con pasta), quale "secondo" c'era qualche fetta di "salam crùu" (crespone) o "spalla crua" (spalla cruda) oppure "un tuchetu da gurgunzòa o da taleggiu" (un pezzetto di gorgonzola o di taleggio) da "cumpesò sempar cunt'ul pàn" (da accompagnare sempre con il pane). La fame andava messa sempre in ordine e andava soddisfatta con cibi semplici. Talvolta c'era la bistecca di cavallo e spesso carne di pollo o di coniglio, allevati con maestria da zio Giannino.
So di non offendere la mia Pierina rendendo pubblica un'altra frase che ripeteva spesso. "Men a preferissu lavò 'na brenta da robi e 'ndà non in cusina" (io preferisco lavare un mastello colmo di panni e non andare in cucina). Che (meglio ribadire), mamma non cucinava male, ma su certi piatti era davvero... improponibile. Ad esempio, la pasta al sugo. Pensavo (allora) che a me, la pasta al sugo, non piacesse... mi sono accorto da adulto che la pasta al sugo cucinata bene è gradevolissima in tutte le salse. Quella di mamma era cotta a oltranza e spesso le si diceva che "la va ben par tacasu i manifesti" (va bene -come colla- per attaccare i manifesti. Mamma faceva finta di dolersi, di ravvedersi, ma all'occorrenza, spaghetti e maccheroni o maltagliati e penne... subivano lo stesso trattamento.
In casa poi, non è che si era dei buongustai... ci si doveva nutrire per vivere e non certo vivere per mangiare. Eppure, la fame non l'ho mai patita e mamma accennava alla "calastria" e qui dico cos'è. La "calastria" è l'indigenza assoluta... il non avere nulla da mettere sotto i denti. Noi, la minestra (e qualcos'altro) lo avevamo. La generazione dei nonni, no.
E qui ci inserisco "ul Giusepèn" (titolo del libro che va alla grande) scritto proprio per dire grazie ai nonni per i sacrifici compiuti e il benessere che... ci hanno indotto a creare.