La similitudine (anche fonetica) fra "naguta e 'na guta" è quasi plateale. Col "naguta" si indica semplicemente il niente (e Giusepèn nel dirlo, allarga le braccia, come a dire che c'è il nulla assoluto). Invece col "na guta" si indica espressamente una... goccia. Palese dire o immaginare di che si tratta.
Arrivano adesso le varianti. La prima che mi indica il Giusepèn, visto che si avvicina il Natale. Ha bisogno d'un chiarimento. Si diceva "sa'l ta porta ul Bambèn?" per dire "quali regali pensi di ricevere per il Santo Natale?". Chi risponde, ci si sbizzarrisce, in merito al suo essere buono, meritevole, di doni sognati e agognati. Poi, la "doppia fredda". Giusepèn fa il suo sorrisetto tipico e fa riferimento alla sua vita grama e dice "a mèn un naguten d'ou fei su dàa carta d'argentu" (a me, un niente d'oro confezionato con la carta d'argento).
Nella povertà, si ragionava anche così. Ci si dava pace. Si capiva come ci si accontentava di fronte al "poco" o addirittura al "niente". Tuttavia, "qualcosa" a Natale, sottoforma di doni, arrivava... un cavallo a dondolo, un trenino di legno, la dama, il Monopoli o addirittura una "colt" dentro il cinturone dei cow -boy. Non tutti insieme per ogni bimbo, ma un "qualcosa" a ognuno. La Festa, la si consumava (magari) con qualche arancia nel desco o addirittura il... prosciutto, mai visti durante l'anno. Giusepèn ricorda un vezzo in uso in casa sua. Che, in verità avevo notato anche in casa mia. A Natale, papà si concedeva un "dado" di patè d'oca.
Siccome la spesa natalizia era redatta da mamma, papà ometteva di acquistare il patè d'oca per non gravare sull'importo totale. Mamma ovviamente analizzava il tutto e a piedi, da casa (rione Ospedale) andava in Piazza Cristoforo Colombo, presso la Salumeria Mainini (non era ancora in voga l'era dei Supermercati). Acquistava una "tavoletta" di patè d'oca per il babbo e il signor Vigilio (non Virgilio) non stava lì a controllare per intero il peso della leccornia.
Tutti noi, mamma, zio Giannino ed io, nemmeno assaggiavamo il patè d'oca e lasciavamo al babbo quello sfizio natalizio. Poi c'era Festa davvero con la "rustisciàa" (rosticceria a base di "minuzzi"... bargigli del gallo e qualche interiora dei polli), cucinata proprio dallo zio, subito dopo l'alba. Per l'intera mattinata si avvertiva il profumo di soffritto che dava un tono a una specialità tipicamente Bustocca.
A pranzo, però sembrava tutto abbondante... il lesso, l'arrosto, il salame e qualche dolce che precedeva il tocco finale a base di arance, frutta secca e fichi secchi confezionati come si fa coi datteri o le prugne secche provenienti dalla California.
E siamo a "na guta" che significava (come ho scritto) a una goccia. Peraltro, anche "na guta" subiva una variante nella spiegazione. Poteva essere una "goccia di vino" per dire che se ne voleva in scarsa quantità, ma pure per rispondere a chi chiedeva "vuoi bere" di diceva "si, ma non troppo". Quando poi Giusepèn tirava in ballo il Nocino, allora la richiesta era dentro la domanda..."t'en voei 'n gutèn?" che non significava "ne vuoi un goccio", ma era un semplice invito a bere, lasciando immaginare il "soggetto" cioè il Nocino.
A ben guardare, il "naguta" (niente) aveva un significato modesto....magari poco, ma il niente lo si utilizzava raramente. Mentre "na guta" (una goccia) aveva il sapore della condivisione. Di quanto c'era, si distribuiva. Niente a che vedere oggi, coi Supermercati zeppi di luci, addobbi e di leccornie che... Giusepèn nemmeno si immaginava.