Il discorso nasce proprio da lì; da "radegà" (indaffarato) che Giusepèn rivolge a se stesso. E lo fa con tanta spontaneità che rasenta sia lo stupore sia la voglia di essere utile. "Son radegò pa' l giardèn....u sumenò e mo a edu a proeusa ca la cascia" (sono indaffarato per il giardino .... ho seminato e adesso vedo l'aiuola che mostra i frutti). In verità, l'espressione Bustocca "ca la cascia" letteralmente sarebbe "che caccia", ma qui ....nessuno è a caccia e vuole semplicemente significare che "la terra mostra il frutto della semente" quindi, se ci pianti l'insalata, arrivano i ceppi di insalata ....se semini carote, vedi la parte esteriore delle carote ....il frutto, la radice, sono ovviamente sotto terra.
Giuseppino ha parole di commento anche per il mio lavoro. Dalla sua espressione capisco che è contento. E mi fermo qui. Non voglio parlarmi addosso. Ora Giusepèn mi mostra con orgoglio il suo giardino, curato e pulito come un vestito da indossare per una festa. A proposito, dice in italiano, per poi tuffarsi di nuovo nel Dialetto "mèn, prima d'andà in Busti o foa da cò, m'à petenu, a lustru'i scarpi e a me Maria la ma dò a camisa neta....poeu i culzon ben stirai e ul sgeche cal prufuma". Prima di andare con la traduzione, osserviamo (per pignoleria) la parola "sgeche", molto difficile da dire, quasi intraducibile il suono e con la fonetica che chi ha imparato il Bustocco solo per averlo studiato, non la sa pronunciare. Per me (lo dico senza falsa modestia) è "un gioco da ragazzi" parlare dello "sgeche" e faccio subito una promessa: il giorno (o il pomeriggio o la sera) che il libro dal titolo "ul Giusepèn"(ho avuto la sua autorizzazione per il titolo del libro) della Presentazione, qualcuno mi faccia ricordare di dire "sgeche" nel modo giusto. Se poi qualche "moderno" volesse fare a gara con me, nella pronuncia, accetto la sfida.
Andiamo ora con la traduzione su quanto ha detto Giuseppino in Dialetto: "io, prima di andare in centro della città o in giro per qualche incombenza, mi pettino accuratamente, lucido le scarpe e la mia Maria mi pone la camicia pulita....poi i pantaloni ben stirati e la giacca che profuma".
Osservazioni ...meritorie su quando dice Giusepèn: "in Busti" è il detto con cui ogni Cittadino di Busto Arsizio che abita in periferia, ma non nel centro storico, dice....quindi, si è sempre a Busto Arsizio, ma "in Busti" vuole semplicemente dire "in centro" - il "lustrà'i scarpi" è una di quelle mansioni che Giuseppino esegue personalmente ....da sempre. Maria lo sa e gli lascia fare. Per il suo papà, lucidare le scarpe è un delicato ....rito - e siamo allo "sgeche" che in Dialetto è di genere maschile. Assomiglia al "giacchettino", ma in italiano vuol dire giacca, giacchetta, col genere femminile - la parte finale della frase "cal prufuma" (che profuma) non è banale. Giusepèn quando esce, è in ordine, si spruzza addosso una "colonia" e in certi casi, il profumo ....e qui non svelo la marca, solo per il fatto che Giusepèn me l'ha chiesto.
Adesso si parla del tempo "un po' matu" (un tantino matto), sino a sconfinare nella cronaca e a "toccare" la Politica che resta nelle nostre opinioni e nulla hanno a che fare coi Lettori.
Poi, Giusepèn si lascia andare in una frase saggia che lui conosce bene e che mi garba renderla pubblica: "i dului in non bumbon" (i dolori non sono dolcezze). Come si evince, i "bumbon" si riferiscono ai "pasticcini", a ogni genere di leccornia acquistata dal pasticciere..... una volta coi "bumbon" si racchiudeva il tutto...paste, babà, cannoncini, cannoli e ogni "specifica" di dolci che non mi trova preparato. I "dolori" che hanno colpito Giusepèn, non sono solo quelli fisici "l'è a etò" (è l'età), ma racchiudono anche quelli morali. Me ne parla Giusepèn, per poi concludere "ogni cà l'e fèi da sassu e gan tuci ul so fracassu"....."te le scritu ti, te se rigordi?" (l'hai scritto tu, te lo ricordi?". Un abbraccio col cuore, Giusepèn e uno scambio di sorrisi d'anima, attraverso labbra stirate e uno sguardo dolcissimo pieno di rispetto e di riverenza.




