Storie - 19 dicembre 2025, 13:12

Massimo Da Rin e un dischetto che è l'essenza della vita: «Questi ragazzi mi hanno insegnato a non cedere mai al “non si può fare”. Il nostro spirito? Odio la violenza, amo combattere»

Vent’anni di para ice hockey azzurro nelle parole di Massimo Da Rin, allenatore dal 2005 al 2022 e oggi direttore tecnico: «Dal primo gol della storia a Torino 2006 dopo che perdevamo sempre 6-0 al 4-3 da film alla Repubblica Ceca di Pechino 2022, da "mai una gioia" ad attimi di purissima felicità. Questa è una famiglia nel senso vero della parola, diversa dallo sport “normale” dove spesso si dice “siamo una famiglia” ma non è vero. Milano Cortina può portare visibilità, nuovi atleti e spettacolo: Canada-Stati Uniti qui non emoziona meno che nell’hockey su ghiaccio. Vedi gioco duro, velocissimo, gente che tira con una mano come altri tirano con due. E poi c’è lo spirito: noi andiamo lì a combattere»

Massimo Da Rin da vent'anni nel cuore della nazionale di para ice hockey che parteciperà alle Paralimpiadi Milano Cortina: qui sopra il quintetto varesino-Polha Da Rin, Longhi, Radice, Stillitano e Andreoni ai Mondiali di Prima Divisione Gruppo B vinti ad Astana

“Odio le guerre, odio gli eserciti, odio la violenza, ma amo combattere”. L'intervista a Massimo Da Rin, allenatore della nazionale di para ice hockey dal 2005 al 2022 (nel carnet ci sono cinque Paralimpiadi, Mondiali ed Europei, uno vinto) e oggi direttore tecnico, oltreché coach dei Mastini, potrebbe essere racchiusa in questa frase. 

Potrebbe, ma non si può. Perché Da Rin, 65 anni compiuti il 2 dicembre, è un fiume in piena di umanità, lotta e spirito vincente. Chi lo imprigiona in un risultato, sbaglia, anche se per lui un risultato e un gol in più, alla fine, sono tutto. Lui è "essenza", cioè un uomo che va al cuore delle cose sporcandosi le mani di fatica, sofferenza e fiducia anche davanti a situazioni che apparentemente ne sono prive. È fede. 

Non conosciamo un aspetto della sua vita da allenatore in cui non sia arrivato in porto dopo aver incontrato la tempesta. Non conosciamo un solo traguardo che non sia stato tagliato dopo che il destino pareva avergli tolto tutto, o aver tolto tutto alla sua squadra. La resistenza, la resilienza, l'incapacità di affondare toccando il punto in cui il destino sembra negarti anche la speranza sono sempre state la molla capace di spingerlo fino in fondo a (ri)prendersi tutto. «Gli atleti sullo slittino mi hanno insegnato a non cadere mai nel pensiero “non si può fare”». A passare da "mai una gioia" alla gioia più grande. Perché, di fronte a uno scalino, ma perfino a un muro «noi andiamo lì a combattere e ad abbatterlo».

Massimo Da Rin, quando nasce il tuo primo contatto con i ragazzi dell'hockey su slittino?
Nasce grazie all’amicizia con Andrea Chiarotti, scomparso nel 2018, che è stato davvero il precursore di questo movimento. All’epoca io allenavo il Valpellice e lui mi chiese quasi per curiosità di andare a vedere cosa stavano facendo con lo sledge hockey. Era il 2004 e avevano organizzato i Campionati Europei, un po’ alla buona se vuoi: c’erano molti atleti in carrozzina, Andrea era contemporaneamente allenatore e miglior giocatore della squadra, l’unico di livello internazionale. Mi disse: “Vieni a vedere, ci sono le Paralimpiadi di Torino. È una bella cosa”. Io all’inizio ero anche piuttosto scettico, perché è uno sport completamente diverso dall'hockey. Però sono andato, ho visto, ho conosciuto l’ambiente e ci sono rimasto dentro per sempre. Quell’estate iniziai a Cortina: feci uno stage di allenamenti, conobbi persone straordinarie come Stefano Frassinelli, il preparatore atletico.

Che ruolo ha avuto Frassinelli per te?
Fondamentale. Era il disabile messo peggio di tutti dal punto di vista fisico, con una disabilità molto alta: per parlare doveva aspirare aria, fischiava quasi respirando. Eppure faceva tutto, anche più degli altri. Mi ha insegnato a non cadere mai nel pensiero “non lo possono fare”. Se volevo aiutare un atleta a fare uno scalino, lui mi rispondeva: "No, si arrangia". Se volevo spingergli la carrozzina, la risposta era uguale: "No, si arrangia”. Mi ha dato una forza incredibile e mi ha fatto capire che la disabilità è reale, ma diventa anche un’abitudine, e chi di loro fa sport ci mette il 100% perché lo sport diventa una parte vitale della tua esistenza.

Il primo grande appuntamento è Torino 2006. Che ricordo hai?
L’obiettivo era uno solo: segnare un gol dopo che non era mai successo. Perdevamo 6-0, 7-0, 8-0, agli Europei anche 15-0. Io avevo chiesto solo quello: “Vediamo se riusciamo a fare un gol”.
E ci siamo riusciti contro la Gran Bretagna: gol di Cavaliere, il primo gol della Nazionale italiana di para ice hockey. Quando abbiamo segnato è successo di tutto: la panchina in pista, compresa la dottoressa che vola e cade sul ghiaccio… una gioia pazzesca. Poi ce la siamo giocata per il settimo-ottavo posto, siamo andati all’overtime e abbiamo perso, anche per l’entusiasmo e la foga, ma quel primo gol fu la svolta.

Da lì il movimento cresce. Quali sono le tappe principali?
Un buon Europeo a Pinerolo, i Mondiali di Ostrava (Repubblica Ceca) e la qualificazione per le Paralimpiadi di Vancouver 2010 senza essere Paese organizzatore, cosa non scontata. Sono entrati nuovi giocatori: inizialmente tanti arrivavano dal basket in carrozzina, spesso a fine carriera, poi ecco atleti di alto livello e i giovani dall’Alto Adige. Parlo di giocatori importanti come Florian Planker e Gigi Rosa.

Il momento più emozionante?
La vittoria dell’Europeo e le medaglie, sicuramente: battere squadre come Norvegia o Russia dà una soddisfazione enorme. Ma il momento che mi porto dentro più di tutti è legato all’ultima Paralimpiade, a Pechino, e alla sfida per il quinto posto con la Repubblica Ceca.

Cosa succede in quella partita?
Siamo sotto 3-2 e chiamo time out, c'è un ingaggio difensivo, recuperiamo il disco, andiamo in contropiede con De Paoli che è solo davanti al portiere: tiro, parata. Io in panchina penso: “Mai una gioia”. Poi tolgo il portiere per un ultimo ingaggio in attacco, conquistiamo il disco e Macrì tira una sassata all’incrocio: gol a 12 secondi dalla fine. Andiamo all’overtime, giochiamo lucidi, disciplinati, scappiamo una volta, segniamo e vinciamo 4-3 Era una vita che non battevamo i cechi. Finire quinti è stato un risultato enorme: significava status paralimpico, contributi per i ragazzi, riconoscimenti che magari in campo non pensi, ma che contano tantissimo. Sembrava un film.

Dopo vent’anni, chi ti resta più nel cuore dal punto di vista umano?
Diventa difficile fare nomi. Con tutti quelli che ci sono “da una vita” l'affetto è profondo. Anche nei momenti in cui sono stato più duro, alla fine capisci che ci si vuole bene davvero. È una famiglia nel senso vero della parola, diversa dallo sport “normale” dove spesso si dice “siamo una famiglia” ma non è vero.

C’è però anche un problema di ricambio generazionale.
Sì, ed è un tema centrale. Non c’è ricambio e questo limita anche lo stimolo a migliorarsi. Però è anche la forza di un gruppo che sta insieme da vent’anni. Serve visibilità: Torino 2006 portò 10-12 nuovi giocatori. È quello che spero succeda anche ora con Milano Cortina. Perché atleti come Santino Stillitano o Gian Luca Cavaliere hanno 54 anni: giocare a quei livelli contro canadesi, americani o cinesi di 20-22 anni è durissimo.

Che cosa può portare un grande evento giocato “in casa”?
Tanto entusiasmo e conoscenza. È uno sport emozionante. Chi lo vede spesso ne resta colpito, a volte anche più dell’hockey tradizionale.

Perché?
Perché quando c’è il top mondiale lo spettacolo è altissimo: Canada-Stati Uniti qui non emoziona meno che nell’hockey su ghiaccio. Vedi gioco duro, velocissimo, gente che tira con una mano come altri tirano con due. E poi c’è lo spirito: noi andiamo lì a combattere. Mi ricordo una frase di Frassinelli: “Odio le guerre, odio gli eserciti, odio la violenza, ma amo combattere”. È proprio questo lo spirito.

Andrea Confalonieri