Economia - 20 novembre 2025, 13:56

«Ecco perché l'Italia non cresce: una verità che conosciamo da anni»

L'analisi del presidente di Confartigianato Varese: «Le soluzioni non sono immediate, ma sono chiare. Serve: riequilibrare il prelievo, liberando il lavoro e riconoscendo il ruolo del capitale umano; spostare risorse pubbliche verso ciò che produce crescita, e non solo verso ciò che la mantiene; una certezza istituzionale, tempi chiari, norme stabili; sostenere la crescita dimensionale con strumenti che rendano possibile ciò che oggi è troppo rischioso; un piano serio per competenze e tecnologia, non una successione di misure episodiche; accompagnare il passaggio generazionale, perché ogni impresa che si spegne è un pezzo di sistema che non si ricostruisce»

Paolo Rinaldi

Riceviamo e pubblichiamo l'analisi di Paolo Rolandi, presidente di Confartigianato Varese:

"Perché l’Italia non cresce: una verità che conosciamo da anni"

La produttività italiana non è ferma da vent’anni per un errore momentaneo di politica economica, né per una presunta fragilità delle imprese. Il punto è più semplice e, proprio per questo, più difficile da accettare: la nostra crescita è bloccata da un insieme di fattori che non si vedono in un singolo indicatore, ma che attraversano l’intero sistema Paese. Sono cause note, documentate, spesso riconosciute, ma mai affrontate con la continuità che sarebbe stata necessaria.

Il primo elemento è fiscale. In Italia il lavoro sostiene la parte più pesante del prelievo, mentre rendite e asset immobiliari rimangono in larga parte protetti. Non è solo un problema di equità: è un limite operativo. Un sistema che tassa soprattutto il lavoro e la produzione spinge le imprese verso modelli difensivi, rallenta le assunzioni qualificate, scoraggia la crescita dimensionale e riduce le risorse disponibili per formazione, investimenti e innovazione. È una struttura che orienta le scelte: ciò che conviene fare non sempre coincide con ciò che servirebbe al Paese.

A questo si aggiunge la rigidità della spesa pubblica. Da anni l’Italia dedica una quota crescente di bilancio a voci che non possono essere toccate. Più spesa corrente significa meno investimenti: e senza investimenti adeguati in capitale umano, ricerca, infrastrutture e tecnologia, la produttività non cresce. Non c’è riforma che possa produrre risultati duraturi se il sistema non decide di spostare risorse verso ciò che genera valore nel lungo periodo. E questo spostamento, finora, è mancato.

Il terzo nodo è istituzionale. Ogni impresa conosce la fatica di muoversi in un contesto in cui l’incertezza amministrativa pesa più di qualunque variabile di mercato. Una autorizzazione che non arriva, una norma che cambia, un procedimento che si allunga: il costo reale non è mai solo burocratico, ma strategico. Rallenta le decisioni, riduce la propensione al rischio, limita la capacità di programmare. La giustizia civile, con i suoi tempi e la sua imprevedibilità, amplifica questo effetto. Chi investe ha bisogno di un ambiente che riduca il margine di incertezza, non che lo moltiplichi.

Il quarto elemento riguarda la struttura del nostro sistema produttivo. Non siamo prigionieri della microimpresa, come spesso si afferma. Il vero limite è la scarsità di imprese medie e capofiliera, cioè di soggetti in grado di guidare reti, fare ricerca, internazionalizzarsi, creare standard tecnologici. Quando passare da 10 a 15 dipendenti comporta un salto di obblighi, costi e adempimenti che superano i benefici dell’espansione, la scelta razionale è non crescere. E se la crescita non conviene, la produttività resta bassa.

Un altro punto cruciale è il capitale umano. La qualità delle competenze disponibili sul mercato del lavoro è una delle variabili che più incidono sulla capacità produttiva di un Paese. L’Italia investe poco nella formazione tecnica e nella formazione continua, e questo genera un divario crescente tra ciò che serve alle imprese e ciò che il sistema educativo produce. Il mismatch non è un fenomeno recente: è il risultato di vent’anni di investimenti insufficienti.

Il nodo tecnologico, poi, completa il quadro. Le imprese più avanzate innovano, ma il Paese nel suo insieme non riesce a raggiungere una massa critica sufficiente. La digitalizzazione procede a velocità diverse: veloce dove ci sono competenze, capitale e infrastrutture adeguate; lenta o lentissima dove questi elementi mancano. Gli incentivi esistono, ma non diventano sistema.

Infine, c’è un tema che raramente entra nel dibattito pubblico, ma che le imprese vivono tutti i giorni: la continuità aziendale. Stiamo attraversando una delle più ampie transizioni generazionali della storia industriale del Paese. Non affrontarla significa lasciare scoperti interi segmenti di filiera, perdere rapporti costruiti in decenni, disperdere capitale produttivo non replicabile.

Se la produttività non cresce, è perché tutti questi elementi concorrono nella stessa direzione: rendono più difficile trasformare capacità in valore.
Le imprese italiane – soprattutto quelle che esportano, innovano e trainano le filiere – non hanno smesso di competere. Hanno smesso di trovare nel Paese un contesto che le accompagni.

Le soluzioni non sono immediate, ma sono chiare.
Serve riequilibrare il prelievo, liberando il lavoro e riconoscendo il ruolo del capitale umano.
Serve spostare risorse pubbliche verso ciò che produce crescita, e non solo verso ciò che la mantiene.
Serve certezza istituzionale, tempi chiari, norme stabili.
Serve sostenere la crescita dimensionale con strumenti che rendano possibile ciò che oggi è troppo rischioso.
Serve un piano serio per competenze e tecnologia, non una successione di misure episodiche.
Serve accompagnare il passaggio generazionale, perché ogni impresa che si spegne è un pezzo di sistema che non si ricostruisce.

La produttività non è un indicatore: è una scelta. E quella scelta dipende da un sistema che deve tornare a essere un moltiplicatore di valore, non un freno alla sua generazione.

C.S.