Quel soffio di vento leggero. La brezza, il profumo acido di foglie cadute, un fiore, la vaghezza dei pensieri, il sogno incantato, le rughe, i palpiti lontani di storie infinite, TU a leggere attenta, il cuore che batte, le palpebre socchiuse, gli aneliti, la voglia matta di trovare in giro, sorrisi dispersi, forse incanalati nell'abitudine di una vita su cui qualcuno ha voluto dire, ma che si è pulita, tersa nel cielo azzurro, lavata da ricordi lontani.
Giusepèn è un po' sommerso nei suoi pensieri e non mi vede, mentre lo osservo. E' lineare nei suoi ragionamenti, colmi di saggezza. Il suo eloquio, tuttavia, non lascia trasparire ciò che lo affligge o che è incurante di talune stoltezze, compiute nel suo nome.
Eccoli -ora- i suoi occhietti furbi, colmi di sorrisi incamerati per quanto ha saputo donare. Non ci si può esimere dal volergli bene. Ed io, gliene voglio, con quel rispetto ancestrale che fa di noi un senso di amicizia, mai incrinato, sia pure con la differenza di età, fra lui (99 anni) e me (79).
Mi commuove quel "dimàl anca a mèn" (dillo anche a me) quel racconto lontano che ci coinvolse, quando, sulla canna della sua bicicletta, Giusepèn mi stava accompagnando a scuola (Elementari, Scuole Ezio Crespi, via Luigi Maino Busto Arsizio).
Era di Primavera - frequentavo la Seconda o la Terza classe - e Giusepèn si offerse di portarmi a Scuola - proprio di fronte la "Ezio Crespi" inavvertitamente, misi un piede fra la ruota anteriore e il telaio della bicicletta - Giusepèn non ebbe tempo di frenare (la strada, allora, non era asfaltata) ed entrambi finimmo in un capitombolo che, al momento (rivedo quello sguardo) rivelava conseguenze ben oltre la sbucciatura di gomiti e ginocchia. Il piede si era gonfiato e Giusepèn pensò bel oltre la slogatura - il male, non me lo ricordo, ma ricordo quel pianto sconnesso di dolore che aveva colto Giusepèn allo stupore. "Eh, mò?" (E, adesso?) - poi, a guardare l'ematoma sul piede (la scarpa era volata via), Giusepèn ha detto solo "l'è rutu" (è rotto) , per la botta presa e per l'attrito causato dal manubrio che Giusepèn voleva raddrizzare e la durezza del telaio. "T'a menu a cò …'ndèm" (ti porto a casa, suvvia), ma vista la vicinanza della Portineria dell'Ospedale, Giusepèn cambiò idea e mi aiutò a sorreggermi per finire al Pronto Soccorso.
Non fu necessario ricorrere alle lastre per verificare i danni - il bravo medico, mi aveva mosso il piede con una certa energia e rassicurò Giusepèn (e me) che il piede non era rotto, "par forza, l'è bituò a giugo al furbòl" (per forza, è abituato a giocare a calcio) …. come a dire, "botte così, se ne danno i ragazzi durante la partita" - a casa, c'era Zappi (zia Giuseppina, la mia balia) che subito aveva notato la fasciatura al piede, per dire subito "e a scorpa, 'dua l'è?" (la scarpa, dov'è?) - Giusepèn ha ricordato l'accaduto e si era addossato colpe che non aveva. In effetti, l'incuria era mia e, invece di stare fermo sulla canna, mi divincolavo, gesticolando, procurando il capitombolo!
Tutto fu spiegato a mamma, al rientro dal lavoro e mi affrettai a dire …. come effettivamente, era andata. Mi aspettavo … due o tre sculaccioni, almeno una strizzata di riccioli o una "reprimenda" fuori programma - invece, mamma, mi aveva guardato cogli occhi buoni e, sotto il controllo di Zappi, oltre ad avermi sorriso, mi disse "brau… che l'om là (diretto a Giusepèn) al go'l magòn pàa toma chi fèi, ma al go nanca culpa" (bravo, quell'uomo ha il magone, sentendosi colpevole per la caduta, ma lui, ha nessuna colpa) - magari, per chi legge, il racconto ha nessuna valenza, ma io ho apprezzato l'atteggiamento di mamma, di fronte a me che avrei potuto incolpare per incuria, Giusepèn, invece, senza minimizzare (ero un bambino) l'accaduto, avevo agito con giustizia.
Giusepèn ha …. perso la parola. Mi ha detto solo "vegn chi, strafùi a t'à oou bèn" (vieni qui (strafùi è un vezzeggiativo), "ti voglio bene" - poi mi ha ringraziato con un "dimàl anca mèn" ed io gli ho risposto "si, a t'à ou bèn anca mèn" (ti voglio bene anch'io). Ora si che ci vuole un Nocino!