Ieri... oggi, è già domani - 13 luglio 2025, 06:00

“T'à custumu, mèn” - “Ti educo, io”

A volte, il cervello rincorre momenti ancestrali. Li riporta a galla come "reperti" e li introduce nella vita odierna, per non dimenticare...

A volte, il cervello rincorre momenti ancestrali. Li riporta a galla come i "reperti" e li introduce nel classico, nella vita odierna, per non dimenticare. Giusepèn annuisce, quando gli ripeto una frase di mamma che quasi mi ossessionava, quando la sentivo dire: "t'à custumu, mèn" che, nella traduzione espressa nel titolo è proprio, "ti educo, io".

Ho già scritto altre volte che ero un ragazzino-ragazzo-ometto, vivace! Ciascuno aveva a che dire o commentare, sulla mia condotta di vita - non ero un delinquente, sia chiaro; in fatto di marachelle, però, ne sapevo compiere, parecchie. Tutte per gioco o per divertimento. Ero... spensierato. Ecco il termine giusto. L'essere "spensierato" non era un danno e nemmeno una colpa. Tuttavia, chi doveva curare la mia educazione e il mio crescere, doveva preoccuparsi affinchè abbia a percorrere la strada giusta - a volte, ci riuscivo; altre volte "subivo gli esiti di una reprimenda" - attenzione, però: nessuno era autorizzato a fornirmi una punizione e, meno che meno, ad agire al di fuori di quanto il "giudice supremo" (mamma - sic), stabiliva.

Col suo "t'à custumu, mèn" erano comprese le "prove a carico, le attenuanti, l'imponderabile e ogni azione che si avvicinava al pericolo" e, di conseguenza, andavo incontro a una certa conseguenza. Secondo me, mamma non derogava: "tanti sbagli, tante pacche sul sedere" al massimo della "pena", una strizzata energica ai miei riccioli castano chiaro che mi hanno valso un appellativo desueto, di "biondo" - non lo ero, biondo e compresi presto che quando qualcuno mi apostrofava "ti hui, biondo" era per rimarcare ciò che non di buono avevo fatto.

Giusepèn mette in risalto il fatto che "mamma, derogava" - arrivava alla punizione, solo quando era in via d... disperazione - la sentivo aggiungere "ma candu te à capila?" (ma quando, capirai?) - un bimbo vivace, però "o t'el lighi o làa sfugossi" (questo lo ripeteva sovente, Giusepèn - o lo leghi o deve sfogarsi).

Detto tutto ciò, restava il "t'à custumo mèn" che non aveva bisogno di una "guida all'educazione dei figli" , ma del raziocinio, ma soprattutto dell'amore di mamma - allora, questa analogia non la capivo: sentivo il sedere "fumante" per le poderose sberle e... vattela-a-pesca come potessero influire queste espressioni energiche sulla mia educazione? - per mamma erano necessarie e notavo che nessuno (in famiglia) "alzava le mani" sul mio... corpicino! - il Codice Civile e il Codice Penale di mamma era: "ul fioeu l'è me e al custumu mèn" (il figlio è mio e lo educo, io) - chiarisco subito: il babbo aveva un carattere mite e buono - quando mamma gli raccontava le marachelle (non tutte), sperando che anche papà, potesse dirmi "le hai prese anche oggi?" , magari provando pietà, per questo ragazzo... piccolo e indifeso, vituperato, oltraggiato, percosso, offeso, potesse giustificare il "castigo", al massimo mi puniva con un "dèm, fò'l brou" e mi racchiudeva in un abbraccio dolce, protettivo, specchiandosi nei miei occhioni contriti, ma per nulla al mondo, lacrimevoli. Papà, i riccioli non li strapazzava, ma li... strofinava, come il panno sulla polvere!

Le birbonate fatte a scuola, con maglietta rotta o pantaloncini strappati, subivano una rampogna verbale e basta - quando erano ripetitivi, quei gesti, c'era "te l'è capissi o non che a sugutò a ramendò, anca i culzuni s'à scepàn?" (la vuoi capire che a continuare a rammendare, anche i pantaloni, si rompono?) - per le litigate, una sola volta ho detto a mamma, l'accaduto - non mi ha lasciato finire il discorso; prima me le ha suonate (tri o quotàr scuatài sul cù" (tre o quattro sculacciate), poi è seguita la ramanzina: "i màn te i tegni a ca tua, t'è capì?" (le mani, le tieni a casa tua, capito?), quindi, qualche altro diverbio finito in litigata, a mamma si diceva nulla. Una sola volta, ho visto mamma, quasi "arrendersi" di fronte a un'altra mamma del cortile che le aveva detto: "chèl lì, in quoi dì l'àa fati piangi" (quello lì -rivolto a me- qualche giorno ti farà piangere) - mamma in modo laconico, ma non con la potenza di voce usuale, ha risposto "a edaèm" (vedremo) e tutto finì lì.

Ero un giovanotto-adulto, quando mamma evocò quel pensiero cattivo: "t'è ustu? a tusa da chela lì, l'à fò piangi a so moma... ti te me fèi piangi da gioia" e inghiottì la sua commozione - (hai visto? la figlia di colei, fa piangere sua madre di dolore... tu mi hai fatto piangere di gioia).

Mi ha abbracciato mamma... non ho avuto il coraggio di aggiungere altro, ma quella gioia immensa, me la porto nel cuore, ringraziando la Provvidenza di avermi donato una mamma come lo è la mia Pierina! - e Giusepèn... "ma darbòn, però" (ma veramente, sai)!

Gianluigi Marcora