Il verbo "sgigutare" è quasi ancestrale. E' una di quelle parole, poco usate, ma dal significato duro, esplicito. La si usava in campo rurale, quando i contadini sostenevano il lavoro manuale nei campi. O quando erano sottoposti a duri lavori contro il tempo, per mettere a posto, al riparo, il raccolto o quanto si era approvvigionato nei campi.
Dopo il duro lavoro, era facile sentir dire "sun chi tul sgigutò" (sono qui tutto torchiato), dalla fatica, dallo sforzo enorme, dal patimento con cui si è arrivati in tempo a non subire le angherie del tempo. Ricordo papà, quando aveva ipotizzato l'arrivo di un temporale e si era nel campo a raccogliere patate. "Fò'sveltu, se da non, a tampesta l'à porta via tuscossi" (fa presto - a raccattare le patate dissodate dalle zolle - altrimenti la tempesta porta via tutto) per dire che avrebbe distrutto o segnato le patate... che poi sarebbero marcite.
Anche quello era il "lavoro" del contadino: "prusmò'l tempo" (prevedere le avversità del tempo) e non per nulla (allora) si diceva che "ul lauò dul paesàn l'è gurdò al voltu" (il lavoro del contadino è quello di guardare il cielo), prevedere le sue evoluzioni, intuire come l'atmosfera potesse cambiare le varie situazioni ecologiche. Eppure -non sempre- ci si azzeccava. Magari sotto "ul maencu" ci si dava un perentorio aiuto, per salvare il salvabile. Il "maencu" è tipicamente Ligure. Vuol dire come si sta evolvendo la situazione ecologica. Sono turbini e saette, in cielo. E' il vento "potente" che scuote arbusti e piante. E' pioggia che arriva "di traverso". Sono tuoni e lampi che incupiscono l'orizzonte. E' l'insieme di tutta la forza, con cui madre-natura, si manifesta - non c'erano (allora) le previsioni del tempo. Il Contadino si arrangiava col suo "prusmò" (ipotizzare) e, spesso e volentieri, il Contadino si "sgigutea" in fatiche enormi che poi lasciavano il segno dentro le rughe del viso, sui calli nelle mani, nel ficiso, dentro la fatica enorme che alla fin fine lasciava nel fisico, disastrose conseguenze.
Giusepèn annuisce, ciondolando la sua testa-austera: "ghea non ul tratui o a machina da trebiò" (non cp0era il trattore o la trebbiatrice) e "tuscossi s'a fea a man" (tutto, ogni lavoro, si svolgeva a mani nude, "teme ul vangò" (come vangare), "sapò" (zappare), "scernì" (scernere-scegliere) e tante altre facezie di pura e autentica fatica. E non era finita, per questi uomini-duri che avevano un "ciapèn da tera" (un piccolo podere) o che "lauèan a tera di padruni" (lavoravano la terra dei possidenti).
Di aneddoti da raccontare, Giusepèn, ne ha molti. Sotto il solleone o dentro un temporale, c'era sempre qualcosa da fare. Il lavoro da compiere era immane. Non per nulla, la durata della vita (allora) era molto limitata - difficilmente, si raggiungevano i 60 anni di età; la salute era precaria e, spesso, si sentiva dire "l'è naguta) (è nulla) oppure, quando un Contadino moriva, lo si bollava con "al ghea ul mò sitiu" (aveva il male sottile) con la paura folle di non-dire "aveva un cancro". C'era il medico curante "ul dutui" che girava per casa. Il Contadino non aveva tempo per andarlo a trovare nel suo Studio - il tempo da perdere, non esisteva. E l'orario di lavoro, lasciava troppo poco spazio, per tutto il resto. Non c'era la TV e la "giornata lavorativa" finiva dopo aver "reguò i besti" (regolarizzati gli animali), tenendo la stalla pulita, il foraggio pronto da distribuire a ore canoniche, la mungitura delle vacche, la strigliata dei cavalli. E... "a mota dul rudu" (la catasta del letame).
Vero, non era per tutti così, ma "lauò a tera" (lavorare la terra) era per eccellenza un lavoro gravoso "pegiu da chèl dul maguttu" (peggiore del muratore) "o di uperoi in fabrica" (o degli operai in fabbrica).
Il modernismo ha poi portato sollievo a tanti lavori manuali e, anche il "sgigutò" ha fatto il suo tempo. La vita del Contadini s'è allungata. Il decoro per la Persona, pure. I campi offrono un raccolto "scelto", privo di fatica, ma (meglio non dirlo) con minore genuinità.
Giusepèn dà la stura a ogni discorso, con un laconico "che vita" che non serve tradurre. C'è una lieve considerazione da offrire a questi eroici-lavoratori: "ul paesàn al s'à dirseda prestu, al laua tropu, al vo'n leciu candu ha cala'l su e al dormi tul sgigutò" (il contadino si sveglia presto, lavora troppo, va a letto quando cala la sera e, va a dormire torchiato ed esausto per l'immane fatica). Talvolta (e meno male) si gode e si concede una "viciua" (chiamiamolo... divertimento).